Nove anni, o giù di lì. Abbastanza per arrivare preparati e, allo stesso tempo, per rischiare di incappare nei vecchi errori. L’Italia guarda al 2032 con l’obiettivo di aggiornare i propri standard infrastrutturali per rispondere al meglio alla chiamata dell’Europeo, assegnato al nostro Paese in condivisione con la Turchia. Due Nazioni distanti, sia geograficamente che culturalmente, alle quali sarà affidata una cooperazione che, da qui ai prossimi anni, potrà basarsi su qualche esempio pratico di ampia portata internazionale. In primis il prossimo Mondiale, quello che si svolgerà nel 2026 tra Stati Uniti, Canada e Messico. E poi quello successivo, addirittura transoceanico – nonostante l’assegnazione sia stata riservata a Portogallo, Spagna e Marocco – coi primi match che si giocheranno in Sud America. Un modo per celebrare i cento anni dalla prima edizione del Campionato del mondo ma, allo stesso tempo, un banco di prova del tutto inedito, che richiederà grande dispendio logistico ed economico.
Europei condivisi
A ogni modo, la strada dello sport del Terzo Millennio è ormai tracciata da tempo, almeno per quel che riguarda il pallone. Sponsor esotici, costi dilatati tanto da rendere necessarie coperture plurime. E quella che in passato era un’eccezione riservata a Paesi vicini geograficamente è destinata a diventare la nuova regola. Anche se, ai fini pratici e prettamente organizzativi, cambia poco. Pur senza esclusiva, allo Stato assegnatario toccherà il compito di indossare l’abito giusto, orientando gli sforzi nella risoluzione di problemi esistenti e nell’aggiornamento dei propri poli infrastrutturali.
Per il presidente della Figc, Gabriele Gravina, riportare in Italia un Europeo che non si organizzava dal 1968 “è una svolta storica”. Anche perché, a dirla tutta, sarà di fatto la prima vera occasione per ritoccare una livrea sportiva ferma ancora ai tempi di Italia 90. Trentadue anni fa. E saranno quarantadue quando si fischierà il calcio di inizio di Euro 2032. Peraltro nemmeno in Italia ma probabilmente all’Ataturk di Istanbul, gioiello da oltre 75 mila posti che, per allora, avrà giusto trent’anni di attività sulle spalle.
Il nodo degli stadi
È chiaro che l’Europeo può essere effettivamente un’occasione. Ma è anche vero che, finora, l’adeguamento degli impianti si è dimostrata faccenda tutt’altro che semplice, almeno per quel che riguarda le strutture maggiori. A oggi, l’unico vero successo in questo senso l’ha registrato l’Allianz Stadium di Torino, sorto dalle ceneri del Delle Alpi e all’avanguardia per bilanciamento tra capienza e servizi. Di fatto, l’unico stadio realmente pronto per un match europeo, non volendo considerare nella ristrettissima cerchia dei prescelti impianti altrettanto validi (come il Gewiss Stadium di Bergamo o la Dacia Arena di Udine) ma con un numero limitato di posti. Gravina ha mostrato ottimismo in questo senso: “Nella candidatura tre stadi sono stati considerati in modo positivo, ne mancano due-tre… Dobbiamo andare oltre, considerare l’edizione del 2032 come una grande opportunità per sviluppare, costruire o comunque rivoluzionare l’idea delle infrastrutture nel Paese“. Una parola, vista la difficoltà atavica riscontrata, ad esempio, nell’aggiornare impianti come La Favorita di Palermo o il Maradona di Napoli. Ma anche nel dotare la città di Roma di un impianto alternativo all’Olimpico.
Il primo passo
“Di sicuro è una grande opportunità – ha spiegato a Interris.it Massimo Ciccognani, storica penna del giornalismo sportivo -, come lo sarebbe stata le Olimpiadi, anche se all’epoca fu un problema più politico che sportivo. L’Uefa è stata molto brava e anche la Federcalcio nel cercare varie soluzioni. Tre o quattro impianti dovranno essere certamente essere rimodernati e, al momento, le certezze sono Olimpico, San Siro e Allianz Stadium. Ritengo che si possa fare molto bene, anche l’idea di istituire la figura di un commissario la considero buona. Già di per sé, l’aver riportato un Europeo in Italia dopo il 1968 è grande opportunità e significa aver lavorato bene”.
Il dazio del nuovo calcio
Il problema di fondo riguarda proprio l’assetto strutturale, oltre che infrastrutturale. Un costo enorme che dovrà, per forza di cose, essere condiviso e supportato dagli enti locali (e non solo). Al tempo stesso, si profila l’opportunità concreta di restituire a città storiche del calcio nostrano impianti al passo coi tempi: “Penso a Napoli ma anche a Genova, che merita tanti lavori. Altro stadio ideale sarebbe il Mapei di Reggio Emilia, che è già risistemato. Il tempo c’è ma dobbiamo essere bravi a farci trovare pronti”. Impianti che, Mapei a parte, rischiano l’esclusione in proporzione all’entità degli interventi che richiedono. “La Turchia gli stadi ce li ha ma, ad esempio, da e per l’Ataturk al momento non ci sono mezzi di trasporto pubblici. Serve un taxi, con costi molto elevati. Per loro sarà realmente più una questione di aggiornamento infrastrutturale”. A voler guardare il bicchiere mezzo pieno, se lo scotto del nuovo calcio richiede il necessario coinvolgimento di più realtà contemporaneamente, ora l’occasione di recuperare il terreno perso negli ultimi trent’anni c’è davvero: “Siamo in ritardo ma c’è ancora tempo per fare qualcosa di buono”.