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L’esortazione di Papa Francesco: “Chiediamoci se siamo davvero persone di pace”

Il discorso integrale di Papa Francesco pronunciato durante l'Incontro ecumenico e di preghiera per la pace nella Cattedrale di Nostra Signora d'Arabia

“Unità nella diversità e testimonianza di vita”. Sono questi i due elementi intorno ai quali si è articolato il discorso di Papa Francesco nel corso dell’Incontro ecumenico e di preghiera per la pace che si è svolto nella Cattedrale di Nostra Signora d’Arabia. Il Santo Padre, inoltre, invita i presenti a interrogarsi “sulla nostra testimonianza, perché con il passare del tempo si può andare avanti per inerzia e affievolirsi nel mostrare Gesù attraverso lo spirito delle Beatitudini, la coerenza e la bontà della vita, la condotta pacifica. Chiediamoci, ora che stiamo pregando insieme per la pace: siamo davvero persone di pace? Siamo abitati dal desiderio di manifestare ovunque, senza attendere nulla in cambio, la mitezza di Gesù? Facciamo nostre, portandole nel cuore e nella preghiera, le fatiche, le ferite e le disunioni che vediamo attorno a noi?“.

Il testo integrale del discorso di Papa Francesco

“Altezza Reale, Signor Ministro della Giustizia, grazie della vostra presenza che ci onora. «Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (At 2,9-11). Santità, caro Fratello Bartolomeo, cari fratelli e sorelle, queste parole sembrano scritte per noi oggi: da tanti popoli e di tante lingue, da tante parti e di tanti riti, siamo qui insieme, e lo siamo a motivo delle grandi opere compiute da Dio! A Gerusalemme, nel giorno di Pentecoste, pur provenendo da molte regioni, si sentirono uniti in un solo Spirito: oggi come allora la varietà delle provenienze e dei linguaggi non è un problema, ma una risorsa. Un autore antico scriveva che «se qualcuno dirà a uno di noi: Hai ricevuto lo Spirito Santo, per quale motivo non parli in tutte le lingue? Devi rispondere: Certo che parlo in tutte le lingue, infatti sono inserito in quel corpo di Cristo cioè nella Chiesa, che parla tutte le lingue» (Discorso di un autore africano del secolo VI: PL 65,743). Fratelli, sorelle, ciò vale anche per noi, perché «noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,13). Purtroppo con le nostre lacerazioni abbiamo ferito il santo corpo del Signore, ma lo Spirito Santo, che congiunge tutte le membra, è più grande delle nostre divisioni carnali. È perciò giusto affermare che quanto ci unisce supera di molto quanto ci divide e che, più camminiamo secondo lo Spirito, più saremo portati a desiderare e, con l’aiuto di Dio, a ristabilire la piena unità tra di noi. Torniamo al testo di Pentecoste. Meditandolo, hanno risuonato in me due elementi, che mi sembrano utili per il nostro cammino di comunione e che vorrei dunque condividere con voi. Sono l’unità nella diversità e la testimonianza di vita.

L’unità nella diversità. A Pentecoste i discepoli, dicono gli Atti degli Apostoli, «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (2,1). Notiamo come lo Spirito, che si posa su ciascuno, sceglie tuttavia il momento in cui stanno tutti insieme. Potevano adorare Dio e fare del bene al prossimo anche separatamente, ma è convergendo in unità che si spalancano le porte all’opera di Dio. Il popolo cristiano è chiamato a riunirsi perché le meraviglie di Dio si avverino. Essere qui in Bahrein come piccolo gregge di Cristo, disseminato in vari luoghi e confessioni, aiuta ad avvertire il bisogno dell’unità, della condivisione della fede: come in questo arcipelago non mancano saldi collegamenti tra le isole, così sia anche tra di noi, per non essere isolati, ma in comunione fraterna.
Fratelli e sorelle, mi chiedo: come fare ad accrescere l’unità se la storia, l’abitudine, gli impegni e le distanze sembrano attirarci da altre parti? Qual è il ‘luogo di ritrovo’, il ‘cenacolo spirituale’ della nostra comunione? È la lode di Dio, che lo Spirito suscita in tutti. La preghiera di lode non isola, non chiude in sé stessi e nei propri bisogni, ma ci immette nel cuore del Padre e così ci connette a tutti i fratelli e le sorelle. La preghiera di lode e di adorazione è la più alta: gratuita e incondizionata, attira la gioia dello Spirito, purifica il cuore, ricostituisce l’armonia, risana l’unità. È l’antidoto alla tristezza, alla tentazione di lasciarci turbare dalla nostra pochezza interiore e dalla pochezza esteriore dei nostri numeri. Chi loda non bada alla piccolezza del gregge, ma alla bellezza di essere i piccoli del Padre. La lode, che permette allo Spirito di riversare la sua consolazione in noi, è un buon rimedio contro la solitudine e la nostalgia di casa. Ci permette di avvertire la vicinanza del Buon Pastore, anche quando pesa la mancanza di Pastori vicini, frequente in questi luoghi. Il Signore, proprio nei nostri deserti, ama aprire strade nuove e impensate e far scaturire sorgenti di acqua viva (cfr Is 43,19). La lode e l’adorazione ci conducono lì, alle fonti dello Spirito, riportandoci alle origini, all’unità.

Vi farà bene continuare ad alimentare la lode di Dio, per essere ancora di più segno di unità per tutti i cristiani! Prosegua anche la bella abitudine di mettere a disposizione di altre comunità gli edifici di culto per adorare l’unico Signore. In realtà, non solo qua in terra, ma anche in Cielo c’è una scia di lode che ci unisce. È quella dei tanti martiri cristiani di varie confessioni – quanti ce ne sono stati negli ultimi anni in Medio Oriente e nel mondo intero! Ora formano un solo cielo stellato, che indica la strada a chi cammina nei deserti della storia: abbiamo la stessa meta, siamo tutti chiamati alla pienezza della comunione in Dio. Ricordiamo però che l’unità, per la quale siamo in cammino, è nella differenza.

Il racconto di Pentecoste specifica che ciascuno sentiva parlare gli Apostoli «nella propria lingua» (At 2,6): lo Spirito non conia un linguaggio identico per tutti, ma permette a ciascuno di parlare lingue altrui (cfr v. 4) e fa in modo che ognuno senta la propria parlata da altri (cfr v. 11). Insomma, non ci rinchiude nell’uniformità, ma ci dispone ad accoglierci nelle differenze. Questo accade a chi vive secondo lo Spirito: impara a incontrare ogni fratello e sorella nella fede come parte del corpo a cui appartiene. Questo è lo spirito del cammino ecumenico.

Carissimi, chiediamo a noi stessi come procediamo in questo cammino. Io, pastore, ministro, fedele, sono docile all’azione dello Spirito? Vivo l’ecumenismo come un peso, come un impegno ulteriore, come un dovere istituzionale, oppure come il desiderio accorato di Gesù che diventiamo «una sola cosa» (Gv 17,21), come una missione che scaturisce dal Vangelo? Concretamente, che cosa faccio per quei fratelli e sorelle che credono in Cristo e non sono dei ‘miei’? Li conosco, li cerco, mi interesso di loro? Tengo le distanze e mi atteggio in modo formale oppure cerco di capirne la storia e di apprezzarne le particolarità, senza ritenerle ostacoli insormontabili?

Dopo l’unità nella diversità, veniamo al secondo elemento: la testimonianza di vita. A Pentecoste i discepoli si aprono, escono dal Cenacolo. Da lì in poi andranno ovunque nel mondo. Gerusalemme, che era sembrata il loro punto di arrivo, diventa il punto di partenza di un’avventura straordinaria. La paura che li chiudeva in casa rimane un ricordo lontano: ora si dirigono dappertutto, ma non per distinguersi dagli altri e nemmeno per rivoluzionare l’ordine delle società e l’assetto del mondo, bensì per irradiare in ogni angolo la bellezza dell’amore di Dio attraverso la loro vita. Il nostro, infatti, non è tanto un discorso da fare a parole, ma una testimonianza da mostrare coi fatti; la fede non è un privilegio da rivendicare, ma un dono da condividere. Come dice un testo antico, i cristiani «non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere, […] ogni regione straniera è la loro patria […]. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti» (Epistola a Diogneto, V). Amano tutti: ecco il distintivo cristiano, l’essenza della testimonianza. Essere qui in Bahrein ha permesso a tanti di voi di riscoprire e praticare la genuina semplicità della carità: penso all’assistenza nei riguardi dei fratelli e delle sorelle che arrivano, a una presenza cristiana che nell’umiltà quotidiana testimonia, nei luoghi di lavoro, comprensione e pazienza, gioia e mitezza, benevolenza e spirito di dialogo. In una parola: pace.

Ci farà bene interrogarci anche sulla nostra testimonianza, perché con il passare del tempo si può andare avanti per inerzia e affievolirsi nel mostrare Gesù attraverso lo spirito delle Beatitudini, la coerenza e la bontà della vita, la condotta pacifica. Chiediamoci, ora che stiamo pregando insieme per la pace: siamo davvero persone di pace? Siamo abitati dal desiderio di manifestare ovunque, senza attendere nulla in cambio, la mitezza di Gesù? Facciamo nostre, portandole nel cuore e nella preghiera, le fatiche, le ferite e le disunioni che vediamo attorno a noi? Fratelli e sorelle, ho voluto condividere con voi questi pensieri sull’unità, che la lode rafforza, e sulla testimonianza, che la carità fortifica. Unità e testimonianza sono coessenziali: non si può testimoniare davvero il Dio dell’amore se non siamo uniti tra noi come Egli desidera; e non si può essere uniti rimanendo ciascuno per conto suo, senza aprirsi alla testimonianza, senza dilatare i confini dei nostri interessi e delle nostre comunità in nome dello Spirito che abbraccia ogni lingua e vuole raggiungere ognuno. Egli unisce e invia, raduna in comunione e manda in missione. Affidiamogli nella preghiera il nostro percorso comune e invochiamo su di noi la sua effusione, una rinnovata Pentecoste che dia sguardi nuovi e passi celeri al nostro cammino di unità e di pace”.

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