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Dubai si prepara per la Cop28: il pianeta nelle mani di 198 Stati

Tutto pronto a Dubai per la conferenza delle parti sui cambiamenti climatici che avrà inizio il 30 novembre

La ventottesima conferenza sui cambiamenti climatici, organizzata dagli Emirati Arabi Uniti, avrà inizio il 30 novembre e si concluderà il 12 dicembre. Saranno presenti 198 Stati, i cui rappresentanti avranno la possibilità di fare un bilancio e valutare gli sforzi compiuti negli ultimi anni. Tra i capi di Stato sarà presente anche  Papa Francesco, che si fermerà a Duba dall’1 al 3 dicembre

L’inizio il 30 novembre

Organizzata dagli Emirati Arabi Uniti, la 28ma conferenza delle parti sui cambiamenti climatici (Cop28) si aprirà a Dubai il 30 novembre per concludersi il 12 dicembre, al termine di negoziati che dovrebbero portare alla firma di un accordo tra i 198 Stati partecipanti. Un appuntamento cruciale per il futuro del pianeta, sempre più a rischio, che richiede un piano d’azione urgente per affrontare la crisi climatica.

Tempo di bilanci

Se la Cop28 è tanto attesa, è anche perché sarà l’occasione di una prima valutazione globale dell’azione per il clima (Global Stocktake, GST), come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015, firmato dalla Cop21. A Dubai è arrivato quindi il momento di fare un bilancio per valutare gli sforzi compiuti negli ultimi anni da Stati, comunità e imprese per ridurre le emissioni di gas serra, adattarsi ai cambiamenti climatici e aumentare i finanziamenti. Un’esigenza ancora più impellente alla luce del moltiplicarsi dei fenomeni meteorologici estremi, documentati da diversi studi e ormai sotto gli occhi di tutti: siccità e temperature record durante l’estate 2023, incendi e alluvioni distruttivi, scioglimento accelerato dei ghiacciai, perdita delle calotte polari e innalzamento del livello del mare, che stanno registrando un’accelerazione intensa.

Tra i partecipanti anche il Papa

La presidenza degli Emirati Arabi Uniti intende fare di questa Cop quella più importante dopo Parigi, con 100 mila partecipanti attesi, più del doppio rispetto a quella dello scorso anno (Cop27) tenutasi in Egitto. Si tratta di decine di migliaia di leader mondiali, ministri, negoziatori, ecoattivisti, industriali che raggiungeranno la federazione della penisola araba.

Tra di loro ci sarà anche Papa Francesco, con la Santa Sede che ha dato conferma della sua presenza, dall’1 al 3 dicembre. La conferenza prenderà il via giovedì 30 novembre, con i primi tre giorni del vertice aperti solo ai delegati, tra cui un’importante riunione dei capi di Stato e di governo, l’1 e il 2 dicembre. Questi incontri si svolgeranno nella Zona Blu, riservata ai capi di Stato, funzionari governativi accreditati e ai media, ed è gestita dall’Onu. A seguire, dal 3 al 10 dicembre, delle giornate tematiche su energia, natura, trasporti, oceani, città.

Cambiamento climatico e la sostenibilità

Si terranno invece nella Green Zone, situata nel quartiere della sostenibilità di Expo City Dubai, aperta al pubblico per gran parte della conferenza, con un’ampia varietà di eventi e laboratori gratuiti, fino al 12 dicembre. Sono previste mostre interattive, installazioni artistiche, proiezioni di film, più di 300 conferenze e discussioni sul cambiamento climatico e la sostenibilità. Gli ultimi due giorni della conferenza sono interamente dedicati ai negoziati finali, tesi a raggiungere un accordo tra le parti, e come sempre c’è da attendersi un rush finale e trattative notturne.

Polemiche degli attivisti sulla presidenza degli Emirati

La Cop28 è al centro di vive polemiche, in primis per la presidenza assegnata a Sultan Al Jaber, che è anche l’amministratore delegato della compagnia petrolifera e del gas di stato degli Emirati Arabi Uniti (Adnoc), la cui produzione di combustibili fossili è in crescita. Diversi attivisti e Ong hanno esortato Sultan Al Jaber a dimettersi dall’Adnoc, denunciando un evidente conflitto di interessi che minaccia il successo della Cop28, sintomatico della crescente influenza che la lobby dei combustibili fossili esercita sugli Stati e sulla stessa conferenza sul clima.

Gli Emirati Arabi Uniti sono anche uno dei dieci principali produttori di petrolio al mondo e si oppongono al rapido abbandono dei combustibili fossili. L’industria dei combustibili fossili genera enormi ricchezze per un numero relativamente limitato di attori aziendali e Paesi, i quali hanno un proprio interesse a bloccare una transizione equa verso l’energia rinnovabile e silenziare gli oppositori. Come denunciato in un recente rapporto di Amnesty International, la pessima situazione dei diritti umani degli Emirati Arabi Uniti minaccia la riuscita della Conferenza.

Un ambiente restrittivo dei diritti umani, limiti severi alla libertà di espressione e di riunione pacifica, chiusura dello spazio civico, possibile spionaggio digitale e sorveglianza tecnologica sono tutti motivi di preoccupazione. Per molti osservatori, l’impegno a consentire che le voci siano ascoltate alla Cop28 è finora insufficiente.

Al contrario, per ambientalisti e attivisti, alla Cop28 dovrebbero essere maggiormente garantiti i diritti di libertà di espressione e di protesta pacifica. Popolazione locale e cittadini di tutte le nazionalità rischiano quindi di non poter criticare liberamente governanti, aziende e politiche, comprese quelle degli Emirati Arabi Uniti, perdendo quindi il loro potere di incidere sulle decisioni politiche da adottare. Inoltre si teme che società civile, popoli nativi e comunità in prima linea, ovvero i gruppi più colpiti dai cambiamenti climatici, alla fine non possano partecipare apertamente, senza timori né intimidazioni.

Primo obiettivo, fermare il riscaldamento globale

Oltre che dei bilanci, alla Cop28 è giunta l’ora di definire soluzioni, con un piano di azioni concrete per correggere la traiettoria: sulla base degli impegni presi finora, il pianeta si sta dirigendo verso un riscaldamento di 2,5 C a fine secolo, lontano dall’obiettivo di non superare 1,5 grado, preso otto anni fa. Pertanto a Dubai sarà anche necessaria una revisione al rialzo degli impegni nazionali, da attuare nel 2025, oltre a dover spingere gli Stati a prendere misure immediate. Se non intervengono cambiamenti forti, lo scenario già in atto avrà conseguenze catastrofiche per miliardi di persone e per gli ecosistemi.

Attualmente si registra una temperatura superiore di circa 1,4 C e, secondo il Comitato consultivo scientifico del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (The Intergovernmental Panel on Climate Change – Ipcc), il nostro pianeta rischia di arrivare a un aumento di almeno 2,8 C entro il 2100, quasi il doppio rispetto a 1,5 C sopra i livelli preindustriali, stabilito a Parigi per riuscire a mitigare gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Pertanto in cima alle urgenze c’è proprio quella dell’adattamento ai cambiamenti climatici con azioni robuste e rapide per rispondere ai crescenti rischi climatici estremi.

Stop energia fossile per transizione verde

Tra le tematiche centrali c’è anche quella della transizione energetica che richiede di accelerare l’uscita dai combustibili fossili e di adottare obiettivi globali per la diffusione delle energie non fossili e dell’efficienza energetica. In altri termini accelerare la transizione verde per un futuro sostenibile. Si tratta di una sfida che divide gli Stati membri, con da un lato chi spinge per un vero cambiamento – gli Stati europei e le piccole isole – mentre i Paesi petroliferi sono contrari.

Le concentrazioni di gas serra, come anidride carbonica e metano, principali responsabili del riscaldamento atmosferico e derivanti soprattutto dalla produzione e combustione di combustibili fossili, hanno già raggiunto livelli record e continuano a crescere.

Il nodo dei finanziamenti

L’altro argomento particolarmente spinoso riguarda i finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo, che richiedono un maggior sostegno da parte dei Paesi più ricchi e un riorientamento dei flussi finanziari. La mancanza di investimenti, a tutte le latitudini, significa che l’infrastruttura pubblica è scarsamente attrezzata per resistere a eventi meteorologici estremi.

Per anni, gli Stati ad alto reddito si sono rifiutati di pagare per le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo, gravemente colpiti pur non essendo i più grossi inquinatori su scala mondiale. Alla Cop27 dello scorso anno in Egitto, è stato concordato di creare un apposito Fondo per le perdite e i danni.

Ora a Dubai dovrebbe essere concretizzato lo storico accordo raggiunto nel 2022 e il fondo in questione dovrebbe, in teoria, essere istituito. Si tratta di aiuti finanziari da destinare a quelle nazioni in via di sviluppo per aiutarle a far fronte ai danni irreversibili causati dal riscaldamento globale. Nel 2023 si sono svolte ben quattro riunioni del comitato di transizione, incaricato di rendere operativo il fondo, a marzo, maggio, agosto e ottobre. Come questo fondo sarà gestito sarà oggetto di negoziazione tra qualche giorno a Dubai.

In effetti molti Stati non dispongono delle risorse necessarie per riparare ai danni causati dal riscaldamento globale o per affrontare i suoi impatti e proteggere i diritti umani. Secondo il diritto internazionale dei diritti umani e l’Accordo di Parigi, gli Stati ad alto reddito – che sono i maggiori emettitori storici di gas serra – hanno l’obbligo, di fornire aiuto ai Paesi “in via di sviluppo” nella riduzione delle emissioni e nell’adattamento climatico. La promessa fatta nel lontano 2009 consisteva in 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020.

Finora non hanno onorato questo impegno finanziario, ma rispettare tutti gli attuali impegni e aumentare il finanziamento per programmi di adattamento e protezione sociale è essenziale per la tutela dei diritti. Per giunta gli stessi Paesi ad alto reddito, possono contribuire ad accelerare una transizione equa verso l’energia rinnovabile a livello globale attraverso il loro ruolo di creditori e regolatori e tramite la loro influenza sulla Banca mondiale, per fornire sgravio del debito o prestiti con condizioni meno punitive.

Clima e diritti umani

Alla Cop28 un accordo che sia rapido, equo e finanziato per il progressivo abbandono dei combustibili fossili è essenziale per proteggere i diritti umani. È diretto il nesso tra cambiamenti climatici, inquinamento, fenomeni meteorologici estremi e diritti umani. L’intensificarsi della crisi climatica sta ipotecando sempre di più il diritto di ogni individuo di vivere in un ambiente pulito, sano e sostenibile. Il riscaldamento globale aggrava la siccità, danneggia i raccolti, provoca scarsità alimentare e l’aumento dei costi alimentari.

Dopo decenni di declino costante, la fame nel mondo è nuovamente in crescita. Questa carenza accresce la competizione per le risorse e può causare sfollamenti, migrazioni e conflitti, generando altre violazioni dei diritti umani. Secondo dati Onu, solo nel 2021 sono stati registrati 23,7 milioni di nuovi sfollati per cause ambientali, contro i 14,3 milioni prodotti dai conflitti. Tra i Paesi più colpiti ci sono Cina, Filippine e India. Per la Banca mondiale, entro il 2050 i migranti ambientali potrebbero arrivare a 220 milioni di persone.

Spesso a subire il peso del cambiamento climatico sono le comunità già più vulnerabili, che utilizzano meno i combustibili fossili, come gli agricoltori di sussistenza, i popoli nativi e coloro che vivono in stati insulari a bassa altitudine, esposti all’aumento del livello del mare e a tempeste più potenti. Tutte manifestazioni climatiche che ipotecano i loro diritti alla salute, alla vita, al cibo e all’istruzione. Indistintamente dal livello di reddito, il riscaldamento globale e la produzione di energie fossili peggiorano significativamente l’inquinamento atmosferico, provocando un aumento di decessi per alcune patologie correlate, sia nel Nord che nel Sud del mondo.

Negli Stati ad alto reddito, i danni causati dall’estrazione di combustibili fossili e dal cambiamento climatico spesso colpiscono in modo sproporzionato le cosiddette “zone di sacrificio“, dove comunità già emarginate sono sottoposte a inquinamento dannoso. I ricercatori dell’ISGlobal e dell’Inserm hanno avvertito che il continente europeo dovrà affrontare ogni estate una media di oltre 68 mila morti in eccesso legate al caldo fino al 2030 e più di 94 mila fino al 2040, a meno che non ci sia una risposta efficace ai cambiamenti climatici. In altre aree del mondo significa che le zanzare, portatrici di malattie, si stanno diffondendo in nuove aree. Il calore estremo provoca anche decessi tra i lavoratori all’aperto, aumenta i tassi di mortalità nelle case di cura e nelle strutture sanitarie.

Fonte: Agi

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