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Covid-19, la Cina si riorganizza: via i primi medici dall’Hubei

Oltre 3 mila sanitari tornano alle loro province di competenza. E da Pechino è già scontro con Washington

Ci vorrà ancora tempo per assorbire appieno l’impatto devastante del coronavirus, specie dove il colpo di martello è stato più potente. La Cina però ci sta provando, ora che il focolaio del contagio si sta pian piano esaurendo e l’allarme rosso si è spostato svariate migliaia di chilometri più a ovest, in Europa. Wuhan, epicentro della catastrofe e per lungo tempo città fantasma, gradualmente tenta di rimettere in funzione il suo tessuto sociale, dopo la visita del presidente Xi Jinping e i numeri del contagio sempre meno impietosi: solo un nuovo caso, registrato ieri, altri 20 quelli di ritorno. Tredici decessi in totale in Cina, 12 nello Hubei e un altro nello Shaanxi, a fronte di un numero complessivo di 143 nell’intero Paese.

La smobilitazione

Un bilancio che, senza sottovalutarne l’importanza, si dimostra diametralmente opposto a quello di poche settimane fa. Tanto da convincere, come riferito dai media cinesi, non meno di 3.675 medici a lasciare l’Hubei, dove si erano recati per lavorare al contenimento dell’epidemia. Quarantuno equipe mediche in tutto, arrivate a Wuhan e provincia da tutta la Cina e, ora, pronti a ritornare ai loro territori di competenza dopo aver affrontato e probabilmente superato l’occhio del ciclone. Anche le autorità locali stanno lentamente rimettendo in funzione tutti i comparti operativi, disponendo la quarantena obbligatoria di 14 giorni per chi arriva dall’estero e iniziando a riavviare, a fase alterna, alcuni servizi rimasti in sospeso, come la registrazione dei matrimoni. Passi graduali verso una normalità che a Wuhan non si vedeva da tempo.

Scontro con Washington

Nel frattempo, con il Paese che tenta di ripartire, l’argomento coronavirus contribuisce ad alimentare un duello a distanza, quello con gli Stati Uniti, che l’emergenza aveva in parte accantonato. Pechino, infatti, torna a scagliarsi contro Donald Trump, accusato di aver utilizzato la dicitura “virus cinese” in un tweet per indicare la Cina come responsabile del probabile periodo di flessione del comparto industriale statunitense. Da Pechino è il portavoce del Ministero degli Esteri, Geng Shuang, a puntare il dito contro Washington, dicendo che il governo cinese “si oppone con forza” ai termini utilizzati dal Tycoon. A sostegno di questo, Shuang ha spiegato che sia l’Oms che il resto della Comunità internazionale “sono chiaramente contrari a legare il virus a Paesi e regioni specifici” e che le affermazioni di Trump contribuiscono “alla creazione di un marchio infamante. Gli Usa dovrebbero prima prendersi cura delle loro questioni”.

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