Cosa ci insegna il Vangelo della guarigione del sordomuto

Foto di Pedro Ivo Pereira Vieira Pedin da Pixabay

L’episodio della guarigione del sordomuto raccontato nel vangelo di oggi si trova solo in San Marco. Viene situato fuori dai confini della Palestina, nella Decàpoli, in territorio pagano. L’annotazione geografica è un po’ strana perché Gesù per scendere verso il lago di Genesareth si sposta prima a nord (da Tiro verso Sidone, nell’attuale Libano) per poi scendere dal versante orientale del Giordano, in territorio della Decàpoli (nell’attuale Giordania). Gesù è uno “sconfinatore” e spesso non segue la via dritta, perché vuole raggiungere tutti sulle nostre vie tortuose e portare il vangelo nei vasti territori pagani della nostra vita.

Dice il testo che il sordomuto venne “portato” a Gesù da altre persone che “lo pregarono di imporgli la mano”. Troviamo altri casi nei vangeli in cui l’iniziativa per chiedere la guarigione di qualcuno è presa da altri. Ciò avviene particolarmente quando il malato è nell’impossibilità di recarsi da Gesù (vedi il paralitico di Cafarnao: Marco 2,1-12; e il cieco di Betsaida: Marco 8,22-26). Ma tutti abbiamo bisogno di “essere portati” dai fratelli e dalla comunità. Gesù allora “lo prende in disparte, lontano dalla folla”, non solo per evitare la pubblicità, ma per favorire un incontro personale con questo uomo.

La modalità di guarigione è piuttosto insolita: Gesù “gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»”. Di solito basta un gesto o una parola di Gesù per operare la guarigione. Qui l’evangelista forse vuole sottolineare la nostra resistenza, da una parte, e il coinvolgimento di Gesù nella nostra situazione, dall’altra. Questo racconto ci ricorda la guarigione del cieco di Betsaida, in territorio della Galilea, che avverrà più tardi (Marco 8,22-26). Pagani o credenti, tutti abbiamo bisogno di essere guariti nei nostri sensi spirituali per avere un rapporto nuovo con Dio e con i fratelli. Così si avvera quanto Isaia aveva profetizzato nella prima lettura: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”.

Spunti di riflessione

  1. Tutto inizia dall’ascolto

Nella Sacra Scrittura il senso privilegiato nel rapporto con Dio è l’udito. Troviamo 1.159 volte il verbo ascoltare nel Primo Testamento, spesso avendo Dio come soggetto (biblista F. Armellini). Ecco perché il primo comandamento è Shemà Israel, Ascolta Israele (Dt 6,4). Essere sordo era una patologia grave, una punizione (vedi Giovanni 9,2), perché impossibilitava l’ascolto della Torah. Ecco perché i profeti annunciavano per i tempi messianici: “Udranno in quel giorno i sordi le parole del libro” (Isaia 29,18). In realtà, il cammino del credente è una progressiva apertura e sensibilità verso l’ascolto: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza” (Isaia 50,4-5). Viviamo in una società acusticamente inquinata, con il rischio di una “otosclerosi”, l’indurimento del nostro orecchio, per assuefazione o per difesa. Questa “sordità fisica” può ripercuotersi nella sfera spirituale. La voce di Dio diventa una fra tante e, addirittura, sovrastata da altre voci amplificate dai media. Il credente ha un estremo bisogno di essere continuamente guarito dalla sordità del cuore.

  1. Dall’ascolto nasce la parola.

Dall’ascolto nasce la parola vera, la comunicazione autentica. La guarigione della lingua è conseguente a quella dell’udito: “Gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente”. In un mondo iperconnesso cresce la Babele dell’incomunicabilità, che si manifesta nel linguaggio falso e manipolatore, nel bullismo e sopraffazione. La parola viene banalizzata, mortificata e resa insignificante, generando un blocco comunicativo, la solitudine e il mutismo. Questa situazione si ripercuote sia nell’ambito familiare e nei rapporti interpersonali che nella società e nella Chiesa. Ci dovrebbe preoccupare in modo speciale l’afonia della Chiesa e del cristiano. Un cristiano afono difficilmente può comunicare la buona novella del vangelo. L’afonia della Chiesa rode la dimensione profetica della fede, col rischio di renderla complice dell’ingiustizia che dilaga nel mondo.

Cosa fare per “parlare correttamente” come l’uomo del vangelo? Come recuperare la voce profetica di “colui che grida nel deserto”, per far risuonare la Parola nei numerosi deserti del mondo di oggi? Forse ci manca quella mezz’ora di silenzio di cui parla l’Apocalisse: “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora.” (8,1). Forse nella Chiesa siamo troppo abituati a salire in cattedra e meno a tacere e fare silenzio. Senza silenzio: non c’è discernimento per cogliere la “gravità” del momento che viviamo; non c’è sensibilità per aprirsi allo stupore dell’intervento divino; non c’è parola illuminata per leggere il presente! Come il profeta Elia, abbiamo bisogno di frequentare l’Oreb della nostra fede, la croce di Cristo, per cogliere la nuova modalità della presenza di Dio nella “voce del silenzio” (1Re 19,12).

Forse ci manca l’igiene mattutina dell’anima. Ogni giorno laviamo con cura le orecchie e la bocca, ma spesso trascuriamo il lavaggio delle orecchie e della bocca del cuore. Bisognerebbe ricordare, ogni mattina, l’evento del nostro battesimo e, immergendo in quelle acque le nostre mani, ripetere interiormente, in preghiera, l’Effatà battesimale: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, mi conceda di ascoltare oggi la sua parola e di professare la mia fede, a lode e gloria di Dio Padre”!