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La santità come vocazione: la Chiesa in Corea del Sud

Il lungometraggio raccoglie quella che è l’eredità spirituale di don John Lee Tae-seok, missionario salesiano coreano che svolse la sua attività pastorale e professionale (era già abilitato come medico quando divenne salesiano, ndr) per quasi un decennio, dal 2001 al 2009, nella comunità di Tonj, nell’odierno Sudan del Sud. In Africa si spese con un’intensa attività pastorale tanto da influenzare in maniera profonda la vita delle persone che aiutava. Quelle persone all’epoca erano bambini o ragazzi. Oggi sono adulti e alcuni, seguendo il suo esempio, hanno voluto seguire le sue orme ripercorrendo i suoi passi non solo nella professione, ma anche nelle tappe di formazione, alcuni anche studiare medicina nella sua stessa università. “Certe realtà si vedono solo con gli occhi puliti dalle lacrime”. Queste parole dette da Papa Francesco durante l’incontro con i giovani filippini a Manila ben rappresentano la chiave di lettura del film-documentario “Risurrezione” che è stato proiettato ieri nell’Aula Pio XI della Pontificia Università Lateranense a chiusura della Settimana della cultura coreana, manifestazione organizzata dall’Ambasciata della Repubblica di Corea presso la Santa Sede per celebrare il giorno della “Fondazione della Corea” che ogni anno si celebra il 3 ottobre. E, riferisce l’agenzia missionaria vaticana Fides, sono proprio loro, studenti della Facoltà di Medicina dell’Università di Busan, in Corea del Sud, i protagonisti di questa pellicola opera del regista Goo Soo Hwan, lo stesso del celebre film dedicato sempre a don Lee e intitolato “Don’t cry for me, Sudan”, che ebbe uno straordinario successo in patria (fu anche proiettato in Vaticano nel dicembre del 2011).

Corea
Foto di Josep Monter Martinez da Pixabay

Fede in Corea

“Risurrezione” si può definire il sequel di “Don’t cry for me, Sudan”: il nuovo lavoro cinematografico di Goo Soo Hwan, infatti, parte dalla morte di don Lee, avvenuta nel 2010. A raccontare quei momenti sono i suoi studenti, giovani che caddero nella disperazione alla notizia della sua dipartita. Una disperazione che però non durò molto. Ben presto si accorsero che il loro compito era quello di continuare, se pur in modi diversi, la sua missione. Qui sta la chiave di lettura di tutta la pellicola: nella cultura sud-sudanese piangere in pubblico è motivo di imbarazzo, ma gli studenti non riescono a trattenere le lacrime quando pensano al loro maestro. E proprio condividendo l’amore che egli aveva dato loro, i pianti presto lasciano il posto alla gioia e oggi la gratitudine verso don Lee traspare nei gesti dei suoi allievi. “Certe realtà si vedono solo con gli occhi puliti dalle lacrime”. Il regista ci tiene a precisare che il film non è solo un racconto del percorso che gli allievi del missionario hanno intrapreso per essere medici: “Sono diventate persone che danno: qui importa come stanno vivendo la loro vita. E stanno vivendo esattamente la vita del loro ‘padre’. Essi mi hanno mostrato cos’è la felicità e cos’è davvero l’autorevolezza”. “Volevo sapere se le lacrime degli studenti li avessero cambiati. Beh, le loro vite sono cambiate moltissimo!”, aggiunge il regista, noto per i suoi interventi critici e duri, che ha all’attivo oltre 30 anni di esperienza come giornalista investigativo.

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