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CINA, LA CRISI CHE FA PAURA AI MERCATI

Tremila miliardi di dollari bruciati in meno di un mese, roba da riempire dieci volte le casse della Grecia. Il gigante cinese scopre di avere i piedi d’argilla e di essere sospeso all’interno di una bolla, pronta a esplodere da un momento all’altro. Altro che Atene, troika, Germania e Bce, la crisi del Dragone spaventa il mondo, nonostante la fisiologica impennata di ieri, frutto delle politiche d’urgenza messe in atto da Pechino. A piangere è stata soprattutto la piazza di Shangai, principale borsa valori del Paese. Un mostro capace di crescere del 150% in un anno e di crollare al primo colpo di vento, come un enorme castello costruito su fondamenta tarlate. Basti pensare che la cifra globale persa a partire dal 12 giugno scorso potrebbe tranquillamente inglobare quanto guadagnato dai mercati di Spagna e India.

La preoccupazione è d’obbligo, perché la Cina, sia pur tra rigurgiti di isolazionismo, resta un’economia globale, con interessi nei più importanti Stati occidentali (a partire dagli Usa) di cui detiene quote rilevanti di debito sovrano. Il contagio si è già diffuso, facendo capitolare anche Hong Kong e Schenzen. Agli analisti spetta cercare le cause del tracollo di un mercato sinora in grande ascesa, che ha perso il 30% in un batter d’occhio. Certa è la singolarità della Borsa di Shangai, così diversa dalle sue sorelle occidentali. Apre alle 9.30 e e lavora sino alle 11.30, poi concede agli operatori una pausa di un’ora e mezza. Nel pomeriggio le contrattazioni durano appena due ore: alle 15 scatta il gong finale. A New York, viceversa, si parte alla stessa ora e si procede no stop sino alle 16. Milano inizia alle 9 e chiude, senza pausa fra mattina e pomeriggio, alle 17.25.

Nonostante le liberalizzazioni compiute negli ultimi due anni la principale piazza cinese continua a fondarsi su regole protezionistiche: stretto controllo sugli account degli agenti e limiti sulle proprietà straniere nel Paese della Seta. Questo ha allontanato gli investitori esteri con la conseguenza, dicono, che gli effetti della crisi in Occidente saranno ridotti.

A molti il caos finanziario ricorda la bolla Usa del dot Com, esplosa tra il 1997 e il 2000, che riportò la new economy all’età della pietra. I prezzi delle azioni, tra il 2014 e il 2015, sono saliti a dismisura senza che ciò trovasse un riscontro nella crescita della singole aziende. Come conseguenza i risultati del mercato finanziario si sono discostati sensibilmente dal Pil, cioè dalla cosiddetta economia reale. Come nel precedente americano – legato al rapido aumento di valore delle imprese attive su internet – tutto sarebbe dunque stato causato da un eccesso di entusiasmo confluito nel ChiNext, l’indice che raccoglie le più importanti società tecnologiche della Cina. Il prezzo eccessivo degli strumenti finanziari avrebbe spinto alcuni investitori a vendere, generando un irreversibile effetto domino, in cui tutti, compresi i più fiduciosi, hanno iniziato a dismettere.

Le autorità sono subito intervenute per cercare di contenere il “panico delle borse”, vietando la quotazione di nuove aziende, autorizzando nuovi metodi di indebitamento volti a immettere liquidità e, infine, sospendendo le contrattazioni per moltissimi titoli. Misure drastiche che hanno spaventato ancor di più gli operatori e aggravato l’emorragia. S

Secondo i maggiori esperti di politica internazionale, in ogni caso, il crac finanziario è frutto di un più ampio caso Cina. Le previsioni sulla crescita del Paese, dopo il boom di qualche tempo fa, sono al ribasso. Secondo Fitch quest’anno il Pil scenderà al 6,8%, nel 2016 sarà al 6,5% e nel 2017 al 6. Cifre ancora mostruose per noi ma che rappresentano il tasso più basso registrato dal Dragone negli ultimi 20 anni. Tutto deriverebbe dal nuovo impulso isolazionista assestato da Xi Jinping da quando è salito al vertice del Pcc. Una strategia che ha portato nuove purghe all’interno del partito, nei confronti degli esponenti più aperti agli stranieri. L’effetto è stato quello di rallentare la macchina produttiva, nella speranza di rallentare l’inflazione e abbassare i prezzi per invogliare i concittadini a spendere, creando una domanda interna di un sistema, sinora, che viveva soprattutto di export. Il risultato? L’implosione economica e sociale. Il comunismo di finanziario, questo ossimoro in essere, sembra giunto davvero al capolinea.

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