Quattordici anni, politicamente, sono una vita. E i laburisti, in quattordici anni, Downing Street l’hanno appena sfiorata. L’ultimo inquilino lab, fin qui, era stato Gordon Brown. La cui carica fu a metà tra un’appendice del doppio mandato di Tony Blair e un tentativo (complicato) di far fronte alla crisi economica interna, quando ancora di Brexit si parlava il giusto. Da quel momento, quasi tre lustri di governi Tory, con leadership scarne e il dossier dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea a fagocitare quasi tutte le energie politiche del partito.
L’agonia Tory
Una decina d’anni circa, da David Cameron a Boris Johnson, passando per la travagliata trattativa di Theresa May con Bruxelles, finita praticamente muro contro muro nonostante l’intenzione di venirsi incontro. La situazione l’avrebbe sbrogliata proprio l’ex sindaco di Londra, al quale, per rimanere in sella, non sarebbe però bastato né il larghissimo consenso alle elezioni del 2019 né la normalizzazione della hard Brexit da lui sostenuta fin dall’inizio, l’unica in grado effettivamente di arrivare a dama, pur con qualche punto fumoso.
Starmer: i lab a Downing Street
Quattordici anni che i lab hanno vissuto a corrente alternata. Governo ombra sotto la guida di Jeremy Corbyn per ben tre mandati Tory, superati dai giochi di alleanze prima e schiantati da Johnson poi, con un’elezione che sarebbe costata la leadership allo stesso Corbyn. Questi lucido, però, nel riconoscere il fallimento complessivo della sua corsa a Downing Street (e dei laburisti in generale). E altrettanta lucidità l’ha dimostrata il partito, abile nel trovare l’uomo giusto al momento giusto per ricostruire dalle macerie di un lustro squassato da flop elettorali, Brexit e pandemia. E pensare che, secondo la Bbc, dopo le suppletive di Hartlepool, nel 2021, sir Keir Starmer aveva pensato di lasciar perdere con la leadership di partito.
La leadership
Una decisione ventilata, forse più un impulso che un ragionamento vero e proprio visto che, nonostante il colpo di coda, gli spasmi dei conservatori apparivano già chiari dai dissidi interni che, di lì a breve, avrebbero portato il governo Johnson (in quel momento apparentemente solidissimo) a sgretolarsi. Se l’arguzia di Starmer si era già manifestata all’epoca della debacle di Corbyn, altrettanto lo ha fatto dopo Hartlepool, quando è rimasto in sella proseguendo la sua opera di accentramento politico del Partito laburista, creando prospettive di sviluppo reali mentre la sterlina affondava sui mercati a causa della riforma finanziaria di Liz Truss. Abbastanza per convincere i cittadini a guardare ai Lab come uno schieramento meno ancorato alla sinistra e più vicino al pensare comune. Instaurando, in sostanza, una leadership diametralmente opposta a quella di Corbyn, più carismatico, forse, ma alla lunga ritenuto meno concreto.
La carriera di Starmer
Starmer a Downing Street ci arriva relativamente tardi. Quasi 62 anni, anche in questo lontano anni luce dall’ultima reale premiership forte a guida laburista, quella di Tony Blair. E, alle spalle, una vita piuttosto lontana dalla politica, forgiata nell’ambito della classe operaia alla quale appartenevano i genitori e dall’attivismo, più che da una partecipazione politicamente attiva. Diventato avvocato, accede nell’ambito giuridico fino a essere nominato al vertice del Crown Prosecution Service, la cui guida gli varrà il cavalierato. Eletto deputato per tre mandati consecutivi, dal 2015 al 2019, diventa ministro ombra per la Brexit, portando avanti la sua forma di opposizione.
La Brexit
Un dettaglio non trascurabile perché, se è vero che la posizione rispetto all’uscita dall’Ue è rimasta sostanzialmente inalterata, Starmer ha già fatto sapere che non ritoccherà l’accordo ottenuto da Johnson. Altra decisione-panacea per i cittadini – messi a dura prova da anni di trattative – ma che, a Bruxelles, rimbalza come un possibile, seppur parziale, riavvicinamento.