L’ultima squalifica della Curva Sud per i vergognosi striscioni sulla madre di Ciro Esposito apre l’ennesima discussione sulla violenza in occasione delle manifestazioni sportive. La questione non è solo etica ma anche economica, visto che parliamo di una disciplina, il calcio, che è sul podio delle industrie italiane per fatturato. Ogni anno sui nostri club piovono milioni di euro da sponsor, diritti televisivi, risultati sportivi e ingressi negli stadi. Tanto basta per tenere in piedi il baraccone in omaggio al motto “Show (ma sarebbe meglio dire business) must go on”. Così per risolvere le tante questioni aperte ogni domenica, dal degrado degli impianti al fenomeno ultras, si opta per misure tampone, buone per sopravvivere finché si può, in perfetto stile italiano. A partire proprio dalla questione sicurezza su cui negli anni si sono stratificate leggi, norme e decreti che alla fine hanno ottenuto il risultato opposto rispetto a quello prefisso: allontanare le famiglie dagli stadi.
I dati sull’affluenza nelle gare di serie A, contenuti nel Report pubblicato la scorsa settimana dall’Osservatorio Calcio Italiano, confermano il trend negativo degli ultimi anni: nel primo trimestre del 2015 la media presenze (21.850) ha registrato una flessione del 6,9% rispetto al dato finale della scorsa stagione (23.481) e dello 0,9% in confronto al primo quadrimestre della stagione in corso (22.051). Una discesa inesorabile iniziata alla fine del primo decennio degli anni 2000; basti pensare che la media del campionato 2010/2011 era di 24.901 spettatori, cioè il 12,2% in più rispetto a quella attuale. In questo quadro solo alcune società sorridono, fra cui la stessa Roma, che ha guadagnato l’1,4% di presenze dal 2013/2014. Segue la Juventus, con un incremento di appena lo 0,0052%. Crollano Inter e Napoli, tifoserie storicamente appassionate che si sono progressivamente allontanate dalla vita da stadio.
La cause? I risultati sportivi deludenti di alcune squadre non possono giustificare il calo di pubblico. Le motivazioni sono altre: strutture fatiscenti, caro biglietti e una normativa di contrasto alla violenza che fa acqua da tutte le parti. Gli episodi di Tor di Quinto dello scorso anno, costati la vita al giovane Esposito, sono lì a dimostrarlo. Non è sufficiente restringere e monitorare i canali di accesso alle manifestazioni sportive per sradicare una piaga antica. Basti pensare a quanto accaduto domenica scorsa all’Olimpico; la legge prevede che il contenuto degli striscioni vada in via preventiva comunicato alla società da parte di tifosi e gruppi organizzati. Il club provvede poi a girare la richiesta al Gos (Gruppo operativo per la sicurezza) delle questure. La normativa vieta dunque l’ingresso di tutto quanto non venga approvato dalle questure, ma puntualmente il meccanismo si inceppa e si assiste all’esposizione di messaggi razzisti, motti xenofobi, richiami ironici di tragedie (l’Heysel, Superga, Vincenzo Paparelli e così via). E lo stesso vale se ad entrare sono petardi, fumogeni, accendini, bottigliette d’acqua piene, laser, aste di bandiere e altri oggetti contundenti. Tutto materiale che dovrebbe, ex lege, restare fuori dagli impianti ma che, puntuale, entra.
Senza contare lo scavalcamento delle barriere che dividono i settori o l’occupazione dei gradini destinati all’uscita in caso di emergenza. Per ognuna di queste violazioni la legge stabilisce sanzioni che possono arrivare sino al Daspo, cioè al divieto di accesso alle manifestazioni sportive ma senza un sistema di videocontrollo o la denuncia del personale addetto alla sicurezza colpire i responsabili diventa un’operazione impossibile. Basta recarsi una sola volta allo stadio per rendersene conto. A cosa servono allora prefiltraggi, steward e compagnia cantando se negli impianti a regnare è sempre l’anarchia? A rendere impossibile la vita a chi allo stadio vorrebbe andare solo per divertirsi. E il calcio muore.