Andrés Escobar: oltre il calcio, la vita

Trent'anni fa, l'omicidio del difensore colombiano che, ai Mondiali del '94, segnò un'autorete. Per anni ritenuta la causa della sua morte

Andrés Escobar
Foto: screen USA-Colombia World Cup 1994

“Hasta pronto, porque la vida no termina aqui”. Uno degli explicit più famosi del giornalismo sportivo non fu scritto da un giornalista. Da un uomo di grande intelligenza e talento, questo sì. Un calciatore che, quando prese carta e penna per scrivere il suo pezzo, stava redigendo senza saperlo il suo testamento spirituale. Andres Escobar, come tutti i suoi compagni, era reduce da un naufragio. Quello sportivo della sua nazionale, la Colombia, uscita con le ossa rotte dai Mondiali negli Usa nonostante fosse, alla vigilia, accreditata come una delle possibili favorite. Negli occhi, l’ascesa di un movimento calcistico superbamente orchestrato da un altro uomo di cultura come Francisco Maturana, guida dell’Atlético Medellin e, dopo, ct dei Cafeteros più talentuosi di sempre. Artefice dello 0-5 a domicilio inflitto all’Argentina dell’ultimo Maradona calciatore. Uomo-guida di una squadra quasi troppo bella per essere vera.

L’autogol di Escobar

Alla Colombia, per tutti la vera leonessa dei Mondiali, bastarono due partite per sfaldarsi, dissolta dai colpi della grande Romania di Hagi e dai padroni di casa degli Stati Uniti che, per vincere, non dovettero nemmeno sforzarsi di sbloccare il risultato. Escobar, leader difensivo dei sudamericani, aveva messo un piede dove non avrebbe dovuto, buttando il pallone di un cross innocuo nella porta di Oscar Cordoba, tagliato fuori dalla scivolata disperata del suo difensore. Un autogol, clamoroso per modalità ma senza alcunché di speciale. Non il primo né l’ultimo e, forse, nemmeno il più eclatante nella storia del calcio. “La vida no termina aqui”. Escobar fu il più lucido esaminatore di sé stesso. E, con il suo articolo su El Tiempo, anche dei problemi che avevano liquefatto l’ambizione di una nazionale cresciuta di pari passo agli investimenti fatti nel movimento calcistico. Diventato, tra gli anni Ottanta e Novanta, tra i business dei cartelli. Un grosso business, in primis per un altro Escobar, Pablo, leader del cartello di Medellin, ucciso giusto un anno prima del Mondiale.

L’omicidio

La Colombia del 1994, soffocata dalle guerre dei narcos, è un Paese in ginocchio. E l’ombra cupa della violenza interna si riflette anche sul pallone: i Cafeteros sono senza il “loco” Higuita, portiere e personaggio d’eccezione, coinvolto in un caso di sequestro di persona. E sul gruppo, dopo il k.o. con la Romania, pesano anche le minacce ricevute da Jaime Gomez, che con gli Usa resta in panchina. Andres, nonostante il cognome, con il mondo di fuoco della Colombia non c’entra nulla. Ma di quella violenza finirà per esserne vittima, il 2 luglio 1994, con la squadra rientrata in patria terrorizzata dalle possibili ripercussioni per la débacle americana. La faccia ce la mette solo Escobar, involontario emblema della disfatta con la sua autorete ma leader fino in fondo. L’unico che non solo mette la firma nella disamina di un Mondiale amaro ma che non ha nemmeno timore di farsi vedere in strada, nonostante le raccomandazioni. Finirà ucciso a colpi d’arma da fuoco, fuori da un locale notturno. Probabilmente al culmine di una lite.

Verità e ricostruzione

La ricostruzione dei fatti è sempre stata controversa. Venne però naturale attribuire all’autogol la causa principale dell’omicidio. Sia per il clima in cui versava la Colombia, sia per le ipotetiche perdite nei giri del totonero. In realtà, non è mai stato chiaro se vi fosse un effettivo coinvolgimento del calcio nel delitto. Una ricostruzione accurata, frutto di anni di inchieste in terra colombiana, è arrivata dal giornalista Carlo Pizzigoni, autore del libro “Locos por el futbol”: “La Colombia oggi è molto cambiata – racconta a Interris.it -, non è più un narco-Paese, anche per via dell’estradizione. A trent’anni di distanza dalla morte di Andrés è un Paese diverso. Pochi mesi dopo la morte di Pablo Escobar, però, versava in totale anarchia, di impotenza governativa. Quella dell’omicidio fu una serata maledetta, una serie di circostanze. Non era qualcosa legato all’autorete o a situazioni premeditate. Certo, in quel momento i calciatori preferivano farsi vedere meno. Andrés, però, credeva che non bisognasse vivere in quel modo, come scrisse nel suo famoso articolo. Non si sentiva colpevole di nulla”.

Escobar, la “versione colombiana”

Tuttavia, negli anni, il collegamento con lo sfortunato episodio di Colombia-Stati Uniti non ha fatto che rafforzarsi. “Questo è avvenuto per il clima che c’era in quegli anni ma anche per l’etichetta attribuita alla Colombia. Mi dispiace molto perché sono stato tante volte in quel Paese e mi ha sempre colpito molto l’umiltà della sua gente“. La versione che attribuisce la morte di Andrés Escobar a una serie di cause esterne alla prestazione al Mondiale, peraltro, è quella più diffusa in Colombia: “Una volta andai nella redazione del Tiempo e il caporedattore dello sport mi disse: ‘Sei ancora tra quegli europei che credono che Andrés fu ucciso per un’autorete?’. È anche vero che questo episodio colpì una persona con doti umani particolari, molto apprezzate in Colombia. Molte polemiche furono legate al fatto che l’uomo che materialmente premette il grilletto uscì di prigione molto presto”.

Soldi sporchi

Gli anni bui vissuti dalla Colombia furono disseminati dalla violenza e dal denaro, distribuiti in egual misura, in modo proporzionato alla crescita dell’uno o dell’altra. E anche il calcio finì per attingere dal pozzo avvelenato: “È tutto vero, c’era un riciclo di soldi. E, parlando con il nipote di Pablo Escobar, ho saputo che il boss dei narcos non era tifoso di nessuna squadra ma che, se avesse potuto scegliere, avrebbe scelto l’Indipendiente di Medellin. In quel momento, però, il club di punta era proprio l’Atletico allenato da Maturana. Escobar, tuttavia, non riciclava solo nel pallone e tutto il mondo colombiano riceveva questo tipo di ‘benefici'”. Una serie di investimenti che, in quel momento, si unirono a un livello tecnico già sensibilmente cresciuto, reso evidente da alcuni club: “L’Atletico Nacional, rispetto alle altre squadre, aveva quasi tutti calciatori locali ed era il vanto del dipartimento di Antioquia, molto conservatore. È vero che esisteva questo reinvestimento di soldi sporchi ma era soprattutto l’América de Cali che li utilizzava per attirare calciatori dall’estero, soprattutto dall’Argentina. In generale, il calcio colombiano si è servito in quegli anni dei fondi provenienti da questo mondo”.

La morsa del male

Furono in molti, allora, a parlare di una “mano negra”. Un peso sociale che finì per stritolare una nazionale gonfia di talento e di personaggi carismatici. “Il clima era brutto e fu incredibile che si respirasse attorno a una squadra così forte. La situazione era talmente delicata in patria che andò a pesare sia sul percorso che sulla fama di quella Colombia. La volontà determinate degli Stati Uniti di chiudere con questo tipo di aspetto, portò alla creazione di una task force che ruppe un fronte interno. Per quello che la Colombia era diventata, faceva paura anche viaggiare. C’erano le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, le Farc… Tanti aspetti mescolati portarono la società al collasso”.

Passione sudamericana

Andrés Escobar morì a Mondiali in corso. Ben due ottavi di finale furono disputati quel 2 luglio 1994. Il giorno successivo, la Romania avrebbe eliminato anche l’Argentina. Nemmeno due settimane dopo, il Brasile avrebbe alzato la Coppa del mondo. Il Sud America protagonista, nel bene e nel male. Tanto per ricordare quanto, in quei Paesi, il calcio sia vita, in ogni suo aspetto. Una passione viscerale che, per tanti, significa ascesa sociale. Per chi ci prova, uno spartiacque tra l’emancipazione e la sofferenza. “La cultura del calcio sudamericana – ha concluso Pizzigoni – è molto legata al territorio. C’è un coinvolgimento di passione che è sincero. Una volta, Messi disse: ‘L’amore per il calcio è l’amore per il mio Paese’. Questo aspetto, in Sudamerica, è percepito di più. E si percepisce anche da fuori. Si lega a una società per la quale il calcio è più di uno sport”. Per questo, come scrisse Escobar, la vita non finisce con una sconfitta.