Regista e incursore. Mezzala prima, metronomo poi, maestro del lancio lungo senza intaccare l’originario vizio del gol. La parabola del Luisito Suarez calciatore rispecchia quella di molti grandi calciatori di un’altra epoca del calcio, quando per il fuoriclasse era in qualche modo naturale spostare il proprio raggio d’azione, mettendo qualità uniche al servizio di ruoli diversi. Per l’Architetto il passaggio fu più evidente quando da Barcellona prese l’aereo per Milano, piazzandosi al centro del progetto e del centrocampo dell’allenatore-mentore Helenio Herrera. All’Inter ci arrivò con un Pallone d’Oro in mano e un bottino di sessanta gol in Liga con la maglia blaugrana, ma anche con un paio di Coppe delle Fiere come assaggio dei venturi trioni europei. Quelli che l’Inter non avrebbe più visto per quasi un cinquantennio. Suarez, forse quasi più di Herrera stesso, ha incarnato l’anima della Grande Inter. Come Facchetti e Burgnich per la linea difensiva e Mazzola per la trequarti. E anche per questo il saluto, nel giorno dell’ultimo viaggio, oscilla tra commozione e nostalgia di ricordi belli.
Suarez all’Inter
Suarez si è spento a 88 anni, dopo una breve malattia, lasciando ai nerazzurri una serie di istantanee immortali. La prima delle quali quasi un emblema del calciatore che sarebbe stato, visto che scende in campo nella finalissima di Coppa Campioni del 1961 contro il Benfica con firma già posta sul contratto che lo avrebbe legato all’Inter. Quella finale non finì bene, col Barça come prima delle finaliste sconfitte nella storica doppietta dei lusitani guidati da Bela Guttmann e con Suarez che sbarca a Milano col rammarico del mancato trofeo. Ma anche con l’ambizione di una rivincita, senza sapere che sarebbero bastati tre anni per ritrovarsi di fronte il Benfica e appena due per conquistare la prima Coppa Campioni. Anche quella storica, nella finale di Vienna in cui Tagnin rovinò con una marcatura asfissiante l’ultimo grande appuntamento di Di Stefano, spianando la strada al tris nerazzurro che valse il primo trionfo nella competizione massima.
La rivincita
Un assaggio della rivincita più dolce possibile, perché la stagione successiva l’Inter si gioca ancora la Coppa. E lo a tra le mura amiche, accogliendo un Benfica, vuole la leggenda, già gravato dall’anatema dell’ex tecnico Guttmann. Ma non c’entravano le superstizioni. Era la Grande Inter e grande doveva essere il trionfo. Dal gol-partita di Jair alla coppa alzata davanti ai propri tifosi, un gioco di incastri realizzato al millimetro. Secondo la logica dell’Architetto.