Altra giornata storica per Israele e Bahrein, che quest’oggi danno seguito ai termini dell’Accordo di Abramo e avviano formalmente le loro relazioni diplomatiche. Firma storica perché non ufficializza soltanto, ma avvia di fatto una nuova stagione bilaterale anche sul piano pratico. Un “comunicato congiunto”, che verrà siglato nell’arcipelago dell’emirato da entrambi i Paesi e che metterà nero su bianco i termini dei rapporti che, d’ora in avanti, avvicineranno Tel Aviv a Manama. E proprio dal Ben Gurion di Tel Aviv è partita la delegazione israeliana, congiunta ad alcuni rappresentanti degli Stati Uniti, mediatori ufficiali degli Accordi firmati alla Casa Bianca. A Manama, solo la prima tappa di un “tour” peninsulare che porterà i delegati anche negli Emirati Arabi.
Israele, diplomazia e lockdown
Prossimo passo, l’apertura delle ambasciate nei rispettivi Paesi, atto a questo punto di mera formalità per l’impianto di un corpo diplomatico operativo. “Questo momento storico – ha detto il direttore generale del Ministero degli Esteri, Alon Ushpitz – non sarebbe stato possibile senza la leadership del presidente Trump e della sua amministrazione”. Il responsabile degli Esteri fa parte di una delegazione che comprende altresì il consigliere per la sicurezza nazionale, Meir Ben Shabbat, e i due rappresentanti americani Steve Mnuchin (segretario al Tesoro) e Avi Berkowtiz (negoziatore capo di Trump). Una parentesi di diplomazia di particolare rilevanza per Israele. Un Paese alle prese con una situazione politica ancora approssimativa dopo il passaggio a vuoto in tre differenti elezioni in meno di un anno. E, nondimeno, in una situazione di lockdown generale che, proprio oggi, vedrà un primo allentamento. Questo, dopo che il sistema sanitario ha riscontrato un miglioramento nell’andamento dei contagi da coronavirus.
Altri dossier
In altri tempi, forse, la mediazione dell’amministrazione americana in un’intesa di portata storica avrebbe giocato un ruolo di rilievo in una fase di campagna elettorale. La sensazione diffusa, però, è che stavolta la politica estera sia marginale. Rispetto, naturalmente, a una corsa alla Casa Bianca che, più concretamente, dovrà fare i conti con altri fattori. La pandemia naturalmente, con tutti gli annessi e connessi. Ma anche l’ondata di proteste legate alla discriminazione razziali scatenate dalla morte di George Floyd. Due dossier che, assieme alle consuete contese politiche, si prendono la parte più consistente del dibattito elettorale.