8 settembre 1943: le conseguenze dell’armistizio sull’Italia

Brasile

Foto di Roberto Bellasio da Pixabay

“Signor colonnello, sono il tenente Innocenzi, accade una cosa incredibile: i Tedeschi si sono alleati con gli Americani!”. È l’inizio di un concitato dialogo al telefono, dopo ripetuti spari di mitragliatrici sulle postazioni italiane, tra il tenente Innocenzi Alberto Sordi e un superiore, in una scena, drammatica e farsesca allo stesso tempo, del notissimo film “Tutti a casa”. Il film, del 1960, diretto da Luigi Comencini, con una geniale sceneggiatura di Age e Scarpelli, narra le vicende vissute subite dai soldati di un reparto dell’esercito italiano all’indomani della firma, l’otto settembre del 1943, dell’armistizio con gli Alleati Anglo-Americani.

Nel film non sentiamo la voce del colonnello che comunica l’avvenuta firma dell’armistizio. Lo si arguisce dalla risposta del frastornato Innocenzi-Sordi: “Allora tutto è finito signor colonnello!”. Ma sentendo lo scoppio di una bomba, la telefonata si chiude con una sconsolata battuta: “Ma non potete avvertire i Tedeschi che stanno continuando a sparare?”.

L’armistizio era stato firmato dal generale Giuseppe Castellano e dal generale Walter Bedell Smith, il 3 settembre, a Cassibile, in Sicilia, dove gli Anglo-Americani, che già controllavano il Mediterraneo e il Nord Africa, erano sbarcati il 9 luglio, superando rapidamente la resistenza italiana e tedesca.

Il nuovo capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, nominato dal re Vittorio Emanuele III dopo le forzate dimissioni e l’arresto di Mussolini, a seguito della sua messa in minoranza nel gran Consiglio del fascismo, tentano di mantenere segreta la firma dell’armistizio ma fu lo stesso generale Dwight (Ike) Eisenhower a chiederne perentoriamente la pubblicazione. Così l’otto settembre, l’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), trasmette, dopo alcune marce militari, un breve comunicato registrato di Badoglio: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare gli impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze Alleate Anglo-Americane. La richiesta è stata accolta.  Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

Nel comunicato non si menziona il punto fondamentale dell’armistizio, cioè la “resa senza condizioni” dell’Italia e la frase finale è quanto mai indeterminata e fonte di equivoci. Per di più non era stato previsto alcun piano per fronteggiare la prevedibile furiosa reazione dell’ex alleato “tradito”, che aveva già nel Centro Sud le truppe che avevano combattuto nel Nord Africa e che fa calare dal Brennero nuove divisioni corazzate.

Subito dopo l’annuncio radiofonico dell’armistizio, il re con la famiglia e i dignitari di corte, i membri del governo e della gerarchia militare, compreso il maresciallo Badoglio, fuggono precipitosamente da Roma, lasciando vuoto persino il Quirinale, a Pescara, per imbarcarsi per Brindisi e porsi sotto la protezione degli Alleati.

Il 12 settembre, inoltre, Mussolini, tenuto prigioniero a Campo Imperatore, dopo essere stato liberato da un commando di paracadutisti tedeschi è condotto in Germania per incontrare Hitler e concorda la creazione nell’Italia centro-settentrionale, in contrapposizione con il Regno del Sud, della Repubblica Sociale Italiana, con capitale Salò, sostenuta dagli esponenti fascisti più radicali, nel quadro di un’alleanza con la Germania nazista ancor più subalterna e dipendente.

È rotta in tal modo la stessa unità nazionale raggiunta nel processo risorgimentale. Ne consegue “una nazione allo sbando”, come dal titolo di un documentato libro di Elena Aga Rossi, che ricostruisce la vicenda dell’armistizio e delle sue conseguenze (Il Mulino, 2006).

In questa “nazione allo sbando”, per il vero, all’interno delle forze armate italiane, dislocate in Italia e nell’Europa occupata dai Tedeschi, salvo quelli, pochi, che accettarono di confluire nell’esercito della neonata Repubblica di Salò, oltre cinquecentomila soldati e ufficiali furono deportati in campi di concentramento nazisti.

In Jugoslavia, in Albania e in Grecia, diversi reparti confluirono nei movimenti partigiani della Resistenza antitedesca. Episodi di resistenza ai Tedeschi di reparti italiani guidati da ufficiali fedeli ai valori dell’indipendenza e della dignità nazionale si hanno in Corsica e, soprattutto, nelle isole di Corfù e Cefalonia, dove la guarnigione italiana, dopo giorni di accaniti combattimenti è passata per le armi. A questa esemplare, tragica, vicenda ha dedicato un bellissimo libro Camillo Brezzi dal pregnante titolo, “Né eroi, né martiri, soltanto soldati. La Divisione Acqui a Cefalonia e Corfù settembre 1943” (Il Mulino 2014)

A Roma, sulla via Ostiense, a Porta San Paolo, soldati del corpo dei Granatieri di Sardegna, assieme a civili in armi, congiuntamente, tentano con coraggio di ostacolare l’ingresso nella Capitale delle soverchianti truppe tedesche.

È l’inizio della Resistenza, con la sua prima vittima civile, il giovane insegnante Raffaele Persichetti che, colpito da una pallottola, muore, il 10 settembre, fra le braccia dell’allora studente di medicina, Adriano Ossicini, dirigente della Sinistra Cristiana e futuro senatore della Sinistra indipendente.

Nell’Italia, “nazione allo sbando” dopo l’otto settembre non si ha, tuttavia, la “morte della patria”, come taluni hanno scritto, interpretando erroneamente questa felice espressione contenuta nel romanzo “De Profundis” del grande giurista-scrittore, Salvatore Satta. Nel suo romanzo, infatti, il De profundis è cantato per i gerarchi fascisti, per i vertici militari e gli ambienti di corte e per quello che egli chiama “l’uomo tradizionale”, il cittadino medio di stampo ottocentesco, attaccato alla libertà soltanto come “garanzia del privilegio”, che l’aveva subito ceduta al Fascismo, “impaurito, nel primo dopoguerra, dagli squarci che si erano aperti nel vecchio ordine”.

La Resistenza e la Guerra di liberazione che hanno a Roma, a Porta San Paolo, nelle convulse giornate successive all’otto settembre, il battesimo di sangue, costituiscono, quindi, non la morte della patria, ma la sua ridefinizione, largamente condivisa, ricomposta l’unità nazionale, in chiave democratica, pacifica e solidale.

Carlo Felice Casula: