Un gorgoglio sommesso, il vano sforzo delle corde vocali già provate dalla tracheotomia, il volto distorto dal pianto, la finestra del Palazzo Apostolico che si chiude pochi istanti dopo essersi aperta. Per tutti Karol Wojtyla morì quel giorno, prima dell’agonia finale che fermò il suo cuore la notte del 2 aprile 2015. Il Pontefice non riuscì nemmeno a salutare i fedeli, costretto dalla malattia al silenzio. Un dolore, per lui, anche peggiore della fine. Una storia, la sua, iniziata il 16 ottobre 1978 davanti a una piazza San Pietro ancora sconvolta dalla scomparsa improvvisa di papa Luciani dopo appena 33 giorni di Ministero petrino. Per omaggiare il suo sfortunato predecessore dopo l’elezione da parte del Conclave Karol optò per il nome di Giovanni Paolo II, idealmente unificando in un solo appellativo i due pontefici simbolo del Concilio Vaticano II. “Non si torna indietro” sembrò dire con tale scelta, un messaggio rivolto a quella parte di gerarchia ancora legata a riti e onorificenze non più attuali per la Chiesa che si preparava al terzo millennio.
Al suo affacciarsi dalla Loggia delle Benedizioni della Basilica vaticana si racconta che la folla tirò un sospiro di sollievo. In molti sentendo scandire il nome Wojtyla dopo l’Habemus Papam pensarono a un cardinale africano e quindi alla profezia del Papa nero, presunto prodromo della fine del mondo. Invece comparve un aitante 58enne polacco, già canuto e dai modi nobili ma risoluti. I giornali ne tracciarono il profilo: da giovane aveva vissuto la guerra sulla sua pelle, prima le deportazioni naziste, poi la sovietizzazione della Polonia, osteggiata anche durante gli anni passati alla guida dell’Arcidiocesi di Cracovia.
Il comunismo, in effetti, fu la sua prima vittima; “non abbiate paura di aprire, anzi spalancare le porte a Cristo” gridò nella messa d’inizio Pontificato, rivolgendosi soprattutto a chi viveva oltre la cortina di ferro, abbattuta anche grazie alla sua instancabile opera di mediazione e denuncia. Una favola, la sua, che rischiò di essere brutalmente interrotta il 13 maggio del 1981, quando fu colpito dalle pallottole di Mehmet Ali Ağca mentre sfilava nella piazza gremita per festeggiare la Madonna di Fatima. Alla Vergine attribuì la miracolosa e insperata guarigione e per omaggiarla le donò il piombo che lo aveva ferito, incastonandolo nella corona dorata della Madre di Gesù del santuario portoghese. Il rapporto con Maria ne ha segnato la vita, come testimoniano il blu, la M e il moto “totus tuus” dello stemma pontificale. Una relazione di intima preghiera, portata avanti sin da ragazzo, che gli ha donato la forza di schierarsi sempre dalla parte dei deboli e contro i potenti, dai dittatori dell’est Europa ai mafiosi (memorabile resta il discorso tenuto nella Valle dei Templi di Agrigento, in una Sicilia stremata dalle guerre fra clan).
Ma Giovanni Paolo II fu anche un fiero riformatore, capace di comprendere il cambiamento: rivoluzionò la Curia Romana e, con la Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis, modernizzò il Conclave, portandolo fuori dal medio evo e cristallizzando la Cappella Sistina come unico luogo deputato alle elezioni pontificie. Uno statista a tutti gli effetti dotato, però, di grande umanità e ironia. Come non ricordare le frasi in romanesco (“damose da fa”, “volemose bene”) pronunciate durante un’udienza in Aula Paolo VI, tra le risa di chi lo ascoltava? Aspetti che lo hanno reso uno dei papi più amati di sempre, acclamato Santo pochi giorni dopo la morte e elevato agli onori degli altari grazie a una canonizzazione lampo. E dopo dieci anni il suo sorriso sereno resta nei cuori di tutti, mentre la nostalgia si fa largo.