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La santità è sempre giovane

Giubileo

Foto di Simone Savoldi su Unsplash

Alla Giornata mondiale della gioventù di Toronto Karol Wojtyla spiegò che il nuovo millennio si è inaugurato con due scenari contrastanti: quello della moltitudine dei pellegrini venuti a Roma per varcare la Porta Santa che è Cristo, Salvatore e Redentore dell’uomo. E quello del terribile attentato di New York, icona di un mondo nel quale sembra prevalere la dialettica dell’inimicizia e dell’odio. La domanda che si impone è drammatica: su quali fondamenta bisogna costruire la nuova epoca storica che emerge dalle trasformazioni del secolo XX? “A voi Dio affida il compito, difficile ma esaltante, di collaborare con Lui, nell’edificazione della civiltà dell’amore- disse Giovanni Paolo II-. Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio“.

Fin dalle origini del mondo occidentale così come lo conosciamo, la modernità corrodeva le coscienze. L’uomo si cullava sempre più nell’illusione prometeica di diventare padrone della propria vita, della propria libertà, del proprio destino. Ma al prezzo di recidere le proprie radici, di provocare una netta separazione tra la vita e la fede. E, questa situazione, si acuì all’arrivo dell’Illuminismo, con la cultura dell’immanenza, con le nuove idee portate dalla scienza, dal razionalismo. “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”, diceva Immanuel Kant all’uomo che stava passando dalla modernità alla contemporaneità. E poi, il terremoto della Rivoluzione francese, con il “culto” della dea Ragione. E ancora, la Restaurazione. I rappresentanti degli imperatori che intervenivano in Conclave per impedire l’elezione di certi candidati. Il Sillabo di Pio IX, con la condanna di ogni nuova forma di pensiero. E, appunto dopo tre secoli, un altro Concilio, il Vaticano I, che però venne interrotto quasi subito dalle cannonate italiane contro Porta Pia. Segnando la fine del potere temporale dei Papi, e, nello stesso tempo, il Risorgimento che trovava il suo naturale completamento nell’unità d’Italia.

Il Concilio, prima di chiudersi, aveva dato un immenso potere in più al capo della Chiesa cattolica: una infallibilità assoluta, indiscussa, perché veniva dall’Alto. Dunque, un Papa sempre più monarca, una Chiesa sempre più autoreferenziale, e invece – saltato il dibattito sul suo status e le sue funzioni – un episcopato che non avrebbe più mosso foglia senza il permesso di Roma. Ma, peggio, una religiosità sempre più dipendente da un sistema quasi “schiavistico” di regole, di precetti. La stessa Scolastica non era più quella di una volta, di san Tommaso, ma una versione riveduta, corretta, sempre più verso il basso. Ormai, quello che c’era scritto nei manuali di casuistica era diventato più importante della vita reale, la vita concreta della gente. Un Papa, Pio XI, nella sua enciclica Casti connubi, arriverà a dire che il “retto ordine” della famiglia “richiede da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli, e dall’altra la pronta soggezione e ubbidienza della moglie”. Testuale, ogni parola.

Un altro “ordine”, invece, stava scomparendo: ed era quello del mondo, soprattutto europeo, che aveva prevalso per oltre un millennio, e che le due guerra mondiali avevano fatto definitivamente crollare. Era stato un continuo processo degenerativo, spinto dai “cattivi maestri”, Nietzsche, Freud, Marx, Engels, fino alla follia nazista, fino all’ateismo istituzionalizzato. E poi, il nichilismo, Camus, Sartre. E la secolarizzazione, il relativismo morale, la laicizzazione della vita sociale. L’uomo sempre più allontanato da Dio. Un Dio sempre più oscurato. Fino al “Dio non esiste!”. E se questa visione agnostica del mondo progrediva ogni giorno, era dovuto anche al fatto che il cristianesimo, proprio per la sua debolezza, aveva lasciato uno spazio vuoto. “Per la prima volta nella storia – scriveva J.-M. Domenach – alcune società vivono al di fuori di qualsiasi apparente riferimento al sacro. I bambini che vi vengono allevati non hanno più occasione di incontrare il sacro”. O, nel migliore dei casi, imparavano a memoria il catechismo di san Pio X, “Chi è Dio?”, con il vantaggio di portarselo dietro per tutta la vita; ma anche con l’immagine di un Dio onnipotente, padrone di tutto, nascosto nei cieli.

Da lì, da quelle lezioni di dottrina, erano uscite intere generazioni di cristiani che, a motivo dell’apprendimento soltanto mnemonico, non avrebbero maturato le verità della fede, gli insegnamenti morali. E siccome per secoli la Chiesa si era preoccupata solo dei fanciulli, gli adulti erano stati lasciati a sé stessi. E avevano finito per ridurre la vita cristiana ai momenti simbolici essenziali, o per dare importanza solo a quelli che erano semplici comportamenti della quotidianità. Se ancora pregavano, lo facevano in maniera individualistica, utilitaristica, ricorrendo al Dio “tappabuchi” per ogni bisogno. Mai una preghiera come lode, come ringraziamento. Oppure, qualcuno identificava la preghiera con l’impegno sociale. “Lavorare è pregare”, diceva; e l’impegno finiva per diventare un’alternativa alla preghiera. La risposta di Giovanni Paolo II è chiara: “La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre”. Infatti, la filosofia procede secondo suoi metodi e quindi ha una sua autonomia rispetto alla fede. Non è compito, pertanto, del Magistero della Chiesa quello di creare una propria filosofia, ma, piuttosto, quello di reagire contro quelle tesi filosofiche che portano alla negazione del dato rivelato e privano la fede dello spazio che le è proprio”.

Gianfranco Svidercoschi: