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La concordia è la voce del cuore

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La parola concordia viene dal latino e vuol dire con il cuore (cum cordis): non si tratta di una corrispondenza logica o di un’intesa razionale, né tanto meno di un patto di reciproca sintonia. Non ha nulla a che vedere con l’alleanza, con la collaborazione e neanche con il consenso. Non proviene dalla mente, dalla ragione. La concordia è la voce del cuore ed il cuore è la sede dell’anima. Ce lo ha spiegato molto bene il Vescovo venuto a celebrare il rito di ingresso del nostro nuovo parroco durante un’omelia in cui ha potuto sottolineare, in concordanza con il brano del Vangelo appena letto della vedova che ha gettato nel tesoro le uniche sue due monetine (Mc 12, 41-44), che lo sguardo di Cristo è rivolto al cuore e non alle ostentazioni di ricchezza, di potenza, di affermazione di sé, e tutta la Parola di Dio va in questa direzione.

Il Vescovo ha colto una bella immagine dicendo che chi entra in Chiesa deve vedere l’altare poiché spesso è oscurato da tanti apparenti servitori che lo affollano cercando uno spazio in cui esprimersi, un posto in cui sperare di essere visibili, un compito da poter mostrare agli altri a testimonianza della propria fede. E così finiscono per allontanare chi invece vi accede per conforto, per bisogno, per avvicinarsi a Dio. Più volte i Vangeli ci dicono che non è quella ostentata la strada per la salvezza la cui porta è invece molto stretta, poiché richiede fatica per essere attraversata. E ci ha ammonito ad apprezzare il dono del nuovo parroco che ci veniva assegnato, poiché una comunità potrebbe vivere anche senza, affidando l’eucaristia ai sacerdoti del circondario; il grande dono della guida a cui siamo stati affidati ci darà non solo unità nella diversità e ci consentirà di confrontarci e di riunire le diverse visioni del servizio fornito da ciascuno, ci accompagnerà nelle eucaristie, ci uniformerà all’insegnamento. Ma principalmente ci orienterà verso la concordia, verso l’obiettivo di anteporre il cuore alle nostre decisioni, valorizzando il moto dell’anima e non quello della ragione, che sovente ci ammanta con l’apparenza, la convenienza, la ostentazione per scoprirci nella rivalità, nella gara verso il primato, nel possesso del ruolo, nella lotta di potere.

Parole dure quelle del Vescovo, stimolate dalla Lettura, che scuotono i pensieri per poterli riordinare ad un altro criterio di rilevanza, a cui spesso non siamo abituati: dobbiamo agire valorizzando la concordia che non è l’intesa con gli altri ma è il modo di porre le nostre azioni poiché devono essere ispirate dal cuore e non dalla ragione, che spesso, troppo spesso vi contrasta: non possiamo sentirci soddisfatti perché abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, assolto i nostri doveri, fornito i servizi richiesti, versato l’obolo e recitato le preghiere. No: è il nostro cuore che deve esprimersi; i nostri desideri più spontanei sono orientati nella direzione dell’amore verso gli altri a cui diciamo di rivolgerci? Qual è il vero motivo delle nostre azioni? Nessuno meglio di noi lo sa. Siamo in grado di fare spazio a chi vuole stare con noi? Siamo disposti ad ascoltarlo? O pensiamo di poterci ergere a maestri, insegnanti, esperti?

C’è un sentimento diffuso che alligna, ed il Vescovo nella sua trasparente onestà non ha tenuto fuori il clero, e che si impossessa di chi pure si sforza di fare il bene e lo spinge a fare meglio ma talvolta cade poiché non si rivolge al bene degli altri ma al proprio, per emergere, per essere giudicato migliore, se non addirittura per poter conservare o addirittura accrescere il potere, dimentico che il potere è solo la capacità di fare e non quella di ordinare, che invece risponde al comando, all’ordine mentre il primo è rivolto all’azione, all’attività.

Questa sovrapposizione terminologica tra potere inteso come volontà e capacità, e potere inteso come comando e superiorità, sovente viene ad infrangersi nella relazione con gli altri: chi può faccia, non ordini; chi ha il potere di comandare rispetti colui a cui il comando viene rivolto. Analoghe confusioni produce il verbo servire poiché si immagina che comporti la sudditanza ad un padrone e non si comprende che servire, invece, vuol dire essere utile, tanto che chi non serve è inutile. E la differenza sta tutta nel cuore poiché la mente ci induce verso il significato inappropriato.

Roberto de Tilla: