Una mia carissima amica di tanti anni fa ieri mi ha chiamato per darmi la tragica notizia della morte improvvisa ed inattesa del proprio fratello, colpito da un infarto nel pieno della sua vita matura. Lo conoscevo da giovanotto ed ha sempre avuto un carattere allegro e gioviale, forte e premuroso con tutti, senza mai eccedere nei costumi di vita. Si dice che sono sempre i migliori ad andarsene. Lascia moglie e figli, fratello e sorella, e gli anziani genitori, di cui sono amico fraterno da quarant’anni che non hanno parole se non lo strazio inumano di sopravvivere ad un figlio.
Sappiamo bene che la vita senza la morte non è vita e che la morte è inevitabile; sappiamo anche, da cristiani e credenti, che si tratta di un passaggio alla vita eterna e che sarà risuscitato nell’ultimo giorno e lo incontreremo di nuovo quando anche noi l’avremo raggiunto.
Eppure il dolore rimane immenso, straziante ed inaccettabile per i genitori ed i congiunti, pietoso ed incomprensibile per chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene. Il legame affettivo reciso colora di angoscia la certezza di non rivederlo più in questa vita, le incombenze logistiche sono commoventi e gravose, il futuro sembra oscurato. Poi il tempo lenisce la ferita, abitua alla mancanza, riconverte l’affetto, diluisce i ricordi. È così da sempre, per tutti, in ogni momento ma non riusciamo a trovare il percorso da compiere, la ragione da sostenere, il motivo da giustificare.
È qui che appare in tutta la sua evidenza che la ragione, da sola, non coglie, che abbiamo bisogno di fare appello al cuore, alla sede più intima della nostra anima, tralasciando i bisogni della mente: questa eterna dualità che angustia la filosofia dai suoi albori qui si palesa tragicamente. Nel giardino di Epicuro si negava la morte perché opposta alla vita che non ne consentiva la coesistenza. Troppo poco per sanare l’anima di chi è privato degli affetti. Più convincente san Tommaso d’Aquino con l’immortalità dell’anima, costretta ad abbandonare la corruzione del corpo di cui ha rappresentato la sostanza durante la vita terrena. Se riusciamo ad abbandonare l’edonismo che in ogni momento ci viene riproposto come risposta al senso della vita, valorizzando natura e ragione in contrasto con le aspirazioni e le ambizioni che pulsano dentro di noi e di cui non possiamo fare a meno, allora saremo in grado di elevare lo sguardo oltre gli istinti e rivolgerci all’anima, alla sostanza, alla nostra essenza.
E lì riusciamo ad intuire che la morte non arriva: chiunque ha avuto esperienza di perdita di persone care sa che non sono lontane, che ancora ci sono sia pure non nella struttura fisica che possiamo toccare, ma ne percepiamo la sostanza, ne ascoltiamo la voce quando accendiamo il cuore, ne vediamo il sorriso ed il monito quando chiudiamo gli occhi. E non sono solo i ricordi, non avviene tutto nel nostro cervello, c’è una sostanza che percepiamo e che non è nella nostra mente. Non serve scomodare preveggenze e telepatie, contingenze e casualità, fatalità e capricci della sorte: sappiamo bene, lo sappiamo senza saperlo spiegare scientificamente, che avviene fuori di noi, che ci stupiamo increduli di quanto vediamo e sentiamo, che non siamo soli, anche se ci vogliono tali. E proseguiamo il cammino, forti di questa nuova esperienza, verso la meta annunciata.