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Il bisogno di spiritualità

L’uomo ha bisogno di spiritualità; dall’inizio della comparsa sulla terra l’umanità ha avvertito il bisogno di indagare oltre il limite del sensibile per comprendere il senso della vita, non solo riferito al significato ed alle ragioni del vivere ma anche della direzione in cui essa si muove. Appena ha cominciato a pensare, l’uomo si è interrogato ed ha cercato le risposte alle domande esistenziali non solo sul da dove veniamo ma anche sul dove andiamo e come dobbiamo andarci: la ricerca della divinità regolatrice della vita terrena e la continuazione della vita oltre la morte fisica consegue alla comparsa dell’homo sapiens e risale all’ultima fase dell’età della pietra.

Tralasciando gli studi di paleoantropologia che approfondiscono l’argomento, possiamo dire che almeno dal quarto millennio precedente alla venuta di Cristo si è affacciata sistematicamente sia in Oriente sia in Occidente la convinzione della divinità quale entità superiore non percepibile con i sensi, responsabile della nascita e del governo dell’uomo, oltre le sue capacità fisiche. Tale ricerca é poi divenuta oggetto di studio mediante la filosofia, che ha iniziato a svilupparsi sistematicamente in occidente nel quinto secolo dell’era pagana ed in oriente almeno dieci secoli prima, con la diffusione dell’induismo. Da sempre ci si interroga sul bisogno di spiritualità dell’uomo e sulla sua ricerca e le risposte apparentemente scientifiche non hanno nulla di scientifico ma cercano di farsi strada nella ragione umana che invece rappresenta proprio il limite da cui parte la spiritualità. Sappiamo che innumerevoli esigenze dell’uomo, dalla simpatia alla curiosità, dalla attrazione verso l’ignoto al bisogno incessante di amare e di amore non hanno spiegazioni scientifiche né razionali: esistono, ci sono, fanno parte dell’uomo e qualunque costruzione logica, psicologica, scientifica o materiale non riesce non solo a darne giustificazione ma neanche a muoversi verso la comprensione.

Sembra addirittura che le due strade vadano in sensi opposti: amare è illogico, dare è contrario all’interesse, compatire non è utile e porta ad una sofferenza gratuita evitabile. Eppure tutti sentono il bisogno di amare, tutti provano non solo piacere nel dare ma anche soddisfazione, la compassione è uno dei sentimenti più diffusi, la solidarietà e la benevolenza sono colonne portanti dell’umanità. La ragione umana deve spingere verso la soddisfazione dei propri bisogni e dei propri interessi, verso l’utilità delle proprie azioni affinché vi sia il miglioramento della propria condizione di vita, allontanando le sofferenze, le limitazioni, i disagi, conservando per poi consumare nei tempi di scarsità. Ma la ragione esclude qualsiasi espressione di spiritualità, men che meno qualunque ricerca di essa.

Abbiamo già scritto della complementarietà tra fede e ragione giacché elementi inscindibili del pensiero umano, confermato dalla storia dell’umanità. Ma qui vogliamo soffermarci sulla pura spiritualità, sull’esigenza che pervade l’animo umano, non la mente che ragiona ma il cuore che pulsa. La spiritualità è invisibile ed irrazionale eppure ci riempie, c’è, la avvertiamo, ci inquieta e ci appaga, ci guida e ci consola, in essa ci rifugiamo e da essa traiamo la linfa vitale, la forza di proseguire nel nostro cammino, in essa scopriamo i legami che ci consentono di sentirci nel mondo. La cerchiamo, la inseguiamo, la facciamo nostra, ci appartiene. Ma al tempo stesso è la parte più vulnerabile di noi poiché la sottoponiamo sovente alla ragione ed agli scopi che questa ci propone e siamo spinti ad allontanarcene, con la complicità di innumerevoli maestri e santoni che ci propongono sistematicamente strade alternative, catturando abilmente i nostri bisogni di spiritualità. È diffusa la pratica di rivolgersi a praticare religioni di altra estrazione culturale: dovremmo imparare a distinguere l’erba del vicino, che non solo spesso non è affatto più verde come ci appare, ma principalmente perché non è la nostra.

Questo particolare sovente ci sfugge: la religione che pratichiamo non è frutto di una scelta che possiamo fare secondo la moda ma è l’appartenenza culturale ad un mondo in cui ci riconosciamo culturalmente: se le religioni di altri luoghi e culti sono una ricchezza per noi nel momento del dialogo e del confronto aperto e costruttivo esse diventano un pericoloso impoverimento nel momento in cui smettiamo i nostri panni e ci ammantiamo di realtà lontane negando le nostre radici, le nostre famiglie, le nostre culture, soltanto perché non le conosciamo a fondo e pensiamo siano migliori. Lo saranno pure ma riguardano altre località, altri popoli, altre storie millenarie che non possiamo azzerare vestendone i panni esteriori per un momento. E principalmente non dobbiamo lasciarci abbacinare da brillocchi di facile riconoscibilità: sono quelli che si propongono meglio degli altri ma cercano di portarci su contenuti diversi con l’illusione che si sforzano di migliorare il messaggio secondo le nostre più banali aspettative. No, niente affatto: il messaggio è unico e forte e chiaro, e per i cattolici proviene direttamente dal fondatore della Chiesa. Discostarsi da esso o dalle nostre radici non è la soluzione ma l’inizio dell’allontanamento dalla verità che ci appartiene.

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