Nel messaggio che ha rivolto agli italiani, nell’ultimo giorno dell’anno, il Presidente Mattarella si è soffermato sul dovere imprescindibile di osservare le norme che riguardano la detenzione in carcere. Mettendo in luce il tema del sovraffollamento carcerario che rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti, prosegue il Capo dello Stato, devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine, che passa dalla dignità di ogni persona e dei suoi diritti. L’alto numero di suicidi in carcere è indice di tale inammissibile situazione.
Le riflessioni presidenziali si riannodano al più recente orientamento della giurisprudenza costituzionale. Ha compiuto un anno la sentenza con cui la Corte ha dichiarato illegittimo il divieto di intrattenere relazioni intime dentro gli istituti penitenziari tra il detenuto e le persone a lui (o a lei) legate da un rapporto affettivo. In mancanza di ragioni obbiettive di pericolosità, privare la persona ristretta di un aspetto fondamentale della propria personalità – osserva la Consulta – finisce per costituire una misura arbitraria. Anche il potere punitivo dello Stato deve rispondere a precisi limiti nel rispetto del principio di dignità umana. In particolare, il Giudice delle leggi ritiene lesivo di alcuni parametri costituzionali l’art. 18 delle norme sull’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che il detenuto possa essere ammesso a svolgere i colloqui con il coniuge o con il partner stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando tenuto conto del comportamento della persona in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. La disposizione censurata precludeva in maniera tassativa la possibilità di garantire una sfera di riservatezza con i familiari durante il colloquio, dovendosi, lo stesso, tenere in appositi locali con il controllo a vista ad opera degli agenti di polizia. Ovviamente per rendere effettivo il diritto ai colloqui intimi occorre l’allestimento di “appositi spazi riservati ai colloqui”.
Già un decennio prima, la questione era giunta all’esame della Consulta; in quella occasione la decisione era stata di inammissibilità. Tuttavia, quella stessa pronuncia (n. 301 del 2012) aveva elevato il diritto all’intimità a “un’esigenza reale e fortemente avvertita”, poiché rispondente alla pretesa “di avere relazioni intime, anche a carattere sessuale” a quella parte di popolazione carceraria non ammessa a fruire dei permessi premio. Sulla base di tali premesse, la Corte invitava il legislatore a prestare attenzione a tale problema, “anche alla luce delle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali”. Ma il monito è rimasto per anni disatteso.
La decisione n.10 della Corte si sofferma sulle ripercussioni negative che l’assenza di momenti di intimità causano sul detenuto e sulle prospettive future di un suo reinserimento in società. Del resto, la motivazione non manca di riflettere sulle conseguenze punitive che il divieto di un rapporto di intimità fa ricadere anche sul coniuge incolpevole, costretto a subire restrizioni alla propria sfera sentimentale, sebbene non abbia commesso alcun reato. Tali deficit di segmenti significativi della libertà personale sono in contrasto con numerose previsioni costituzionali. In primo luogo, essendo il carcere annoverabile tra le formazioni sociali, in cui la persona svolge la propria personalità, vanno tutelati i diritti inviolabili del singolo che, pur in stato di detenzione, mantiene la pretesa a quel “residuo” di libertà che non gli può in ogni caso essere sottratto. La proibizione assoluta a vivere la sessualità con il proprio partner può incidere negativamente sui rapporti di coppia, rischiando di spezzarli e azzera, per il periodo della detenzione, il diritto alla genitorialità. L’aspirazione a mettere al mondo la prole è protetta dall’art. 31 della Costituzione e dall’art. 8 della Cedu, al cui rispetto l’ordinamento italiano è tenuto per via dell’obbligo al rispetto del diritto sovranazionale. Secondo l’art.8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo il rifiuto al diritto alle visite coniugali deve essere giustificato “da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine” e rispondere al principio di proporzionalità, bilanciando gli interessi pubblici con quelli privati. E non va dimenticato che il diritto “affettivo” costituisce declinazione del “diritto fondamentale alla salute” e del benessere psico -fisico della persona, anche sottoposta a detenzione, consacrato nell’art. 32 della Costituzione.