C’era una volta Pontida, con la sua verde radura in cui si adunavano leghisti inferociti contro “Roma ladrona”. E Pontida c’è ancora, solo che l’azzurro nazionale ha gradualmente spodestato il verde secessionista, facendo di quel luogo simbolo della Padania la culla di una forza politica che negli anni ha saputo trasformarsi ed espandersi in tutto lo Stivale. Sembra passata un’era geologica dal 1984, quando alle Europee la neonata Lega autonomista lombarda di Umberto Bossi otteneva 1.630 preferenze, un’inezia rispetto agli oltre 9milioni di voti ottenuti dalla Lega di Matteo Salvini alle scorse Europee del 26 maggio. Per comprendere l’evoluzione del Carroccio, le prospettive future in un’epoca di elettorato fluido e volatile, In Terris ne ha parlato con il prof. Marco Tarchi, politologo, professore ordinario di Scienze Politiche all’Università di Firenze.
Prof. Tarchi, come ha fatto la Lega a trasformarsi da partito secessionista a prima forza politica italiana?
“Ha preso atto da un lato dei limiti del potere di incidenza sulle politiche di governo del precedente progetto ‘nordista’ e secessionista, e dall’altro del vuoto di rappresentanza delle istanze di una cospicua sezione della società e dell’elettorato italiani, colpita dalle conseguenze negative del processo di globalizzazione, irritata per l’insipienza della classe politica tradizionale e sconcertata di fronte ad alcuni aspetti della trasformazione culturale in atto (multietnicità e conseguente scontro con abitudini e tradizioni aliene, crescente diffusione e valorizzazione dell’ideologia gender e di comportamenti sessuali ‘trasgressivi’, penetrazione di credenze e pratiche religiose prima pressoché inesistenti, ecc.). Tutti questi elementi hanno creato il brodo di cultura ideale per l’ascesa elettorale”.
La Lega è da considerarsi più un partito populista o di destra identitaria?
“Populista. Lo è da sempre e lo è rimasta, declinando la mentalità populista in molti modi, che ho cercato di descrivere in modo particolareggiato in un capitolo del mio libro Italia populista. L’essenza della Lega è trasversale rispetto al classico spartiacque sinistra/destra, e lo ha dimostrando costruendo alleanze e strategie diverse nel corso della sua ormai lunga storia. Se oggi i suoi messaggi si orientano – in parte – più verso destra, è perché in quella direzione trova un ampio spazio politico a disposizione, e perché la sinistra, nelle sue mutazioni, ha deciso – tralasciando vecchie e consolidate battaglie su temi economico-sociali, che proprio i populisti hanno fatto propri – di assumere come capisaldi alcune posizioni tipicamente avverse alla mentalità populista: xenofilia, cosmopolitismo, difesa ad oltranza dei diritti delle minoranze anche quando si scontrano frontalmente con le aspettative della maggioranza della popolazione, intellettualismo…”.
Ma il profilo dell’elettore leghista corrisponde a quello di una persona di destra. O no?
“Non direi proprio, tanto è vero che a votarla massicciamente – così come accade in molti altri Paesi, europei e non solo – sono settori consistenti di ceti e classi sociali che in passato si erano rivolti ai partiti di sinistra per vedere difese le proprie istanze, primi fra tutti gli ambienti di estrazione operaia. È un fatto ben noto che fra i serbatoi di voti leghisti spiccano le periferie urbane più disagiate, mentre nei quartieri alti prevale la sinistra, o ciò che si dice tale”.
Cosa distingue il populismo dalla destra identitaria?
“Molti aspetti. Sono più le differenze che le affinità. Nel populismo non c’è culto dello Stato, non c’è militarismo, non c’è l’ideale del militante-guerriero ma si tessono le lodi dell’uomo della strada che lavora e si fa i fatti suoi, non si cercano capi carismatici provvisti di doti straordinari ma leader che rispecchino valori, modi e linguaggi della quotidianità. Non c’è un nazionalismo aggressivo proteso a mostrare la superiorità del proprio Paese sugli altri ma un patriottismo difensivo che erige i confini a fortezza contro i nemici che si tema vengano dall’esterno (e a volte dall’interno) ad insidiarlo. Non c’è nessuna propensione a controllare dall’alto l’economia. Non c’è disprezzo per la democrazia ma desiderio di farla essere meno indiretta grazie all’uso di referendum, recall, iniziative popolari. E potrei aggiungere molto altro”.
Eppure tanti osservatori, soprattutto tanti avversari politici hanno accostato Salvini al fascismo. Visto il risultato elettorale, possiamo dire che agitare lo spettro della recrudescenza fascista non sposta più voti?
“Non sposta voti perché gli elettori vedono che il neofascismo è ormai ridotto a una presenza folcloristica e fantasmatica, ai più sgradevole ma che è difficile trasformare in una pericolosa minaccia per la democrazia. Tuttavia crearsi uno spauracchio fascista può essere utile a una certa sinistra per rimotivare e far tornare al voto ex militanti delusi dalla progressiva conversione centrista di tanti ex esponenti del Pci”.
L’ostentazione di simboli religiosi giova a Salvini in termini elettorali?
“A mio parere no, e non capisco perché si intestardisca in queste esibizioni. Fra i suoi simpatizzanti sono sicuramente molti coloro che non vedono affatto di buon occhio la crescita della presenza di musulmani in Italia, ma dubito che gran parte di loro siano inquieti per la concorrenza che l’Islam potrebbe fare alla fede e alla Chiesa cattolica. Sono le abitudini quotidiane di molti dei fedeli di quel credo ad impensierirli ed impaurirli. Lo stereotipo dell’arabo che li porta al rifiuto è etno-culturale più che religioso”.
Al di là della religione, influiscono sul successo della Lega i richiami alle radici, ai simboli della propria tradizione? C’è un ritorno di interesse per questi aspetti nella società globalizzata?
“Sì, credo che influiscano, in questa fase, abbastanza fortemente, anche se certamente solo per una parte non maggioritaria degli oltre nove milioni di italiani che hanno di recente scelto di votare Lega. Molti altri sono attratti dai temi della sicurezza, dell’abbassamento delle tasse, del rilancio delle opere pubbliche e via dicendo. Era comunque inevitabile che la globalizzazione, con la sua pesante e disordinata spinta allo sradicamento culturale e al progressivo offuscamento dei tradizionali referenti a cui si erano ispirati i loro modi di vita e i loro criteri di valutazione di fatti e persone, producesse in molti individui una reazione di tipo tradizionalista e localistico. Ormai, il conflitto tra una mentalità – e una proposta politica e culturale – cosmopolita e una identitaria sta diventando un dato cruciale”.
Come spiega il sorpasso nel consenso elettorale della Lega rispetto all’altro partito di governo, considerato anch’esso populista, il M5s?
“Lo spiego soprattutto con il continuo distanziarsi dei comportamenti e delle prese di posizione del M5s dai tratti fondamentali del discorso politico – populista a pieni carati – che Beppe Grillo aveva svolto prima e, per vari anni, dopo la nascita del movimento. Chi rilegge oggi i post e i comunicati che Grillo divulgava attraverso il blog e li compara con quanto dicono Di Maio, Fico, Toninelli e gli altri esponenti più in vista dei Cinque Stelle (con la parziale eccezione di Di Battista) non può che rendersi conto di quanto grande sia diventata quella distanza. La componente genuinamente ‘grillina’ dell’elettorato M5s evidentemente non ha gradito questo scostamento”.
A suo avviso questo governo è destinato a durare ancora a lungo?
“Uno degli errori maggiori che un politologo può commettere – dopo quello di lasciar influenzare le proprie analisi da giudizi di valori e convinzioni personali di ordine politico/ideologico – è avventurarsi in previsioni, soprattutto quando queste riguardano non fattori materiali ma caratteristiche soggettive di ordine caratteriale. E mi sembra che negli ultimi mesi questo tipo di elementi abbia contato molto più degli stessi freddi calcoli strategici. Tutto quello che mi sento di dire è che, perseverando nella continua rissa, sia il M5s che la Lega finirebbero per farsi seri danni e deludere non pochi di coloro che, votandoli, li hanno – consapevolmente o meno – portati al governo, e adesso vorrebbero vederli mantenere almeno quegli impegni su cui le rispettive posizioni non sarebbero di assoluto impedimento”.