Siciliano di Enna, cantautore della propria terra e interprete teatrale di successo. Mario Incudine non è solo world music italiana: è la nuova generazione della wm, fedele alla tradizione cantautoriale ma con quel pizzico di novità capace di mescolare ad arte pop e strumentale. E anche teatro, perché nella sua carriera c'è stato e continua a esserci, da tutti i punti di vista: autore, sceneggiatore, regista e anche interprete… Musica e scena, d'altronde, sembrano essere per lui una cosa sola: dagli inizi nella compagnia teatrale Amici del Teatro ai successi nel Festival della Nuova canzone siciliana (con vittoria nel 2009 e premio della critica nel 2010), fino agli album D'acqua e di rosi e alla collaborazione con Biagio Antonacci in Dediche e manie, quello fra palco e strumento è un gioco di ruolo in cui si fa squadra, utile per creare una particolare forma d'arte che non sia né musica né teatro ma semplicemente una sintesi di entrambe. E il Barbablù che lo vede protagonista (Teatro Carcano di Milano dal 19 al 24 novembre), scritto da Costanza Di Quattro e con Moni Ovadia alla regia, non fa eccezione: un palcoscenico essenziale ma efficace, con accompagnamento musicale continuo e perfino “una parola sonora”. Una scena che fa da sfondo a un testo di un'attualità quasi inquietante: c'è il tema della violenza in Barbablù, un femminicida, il folle preda di un istitnto barbaro, incomprensibile per chi lo osserva ma anche per chi lo vive: “Riusciamo a fare passi avanti in ogni campo, eppure rimaniamo ancorati al passato quando si tratta di dominare questi istinti. In quel momento potremmo tutti essere dei piccoli e vigliacchi Barbablù”.
Mario Incudine, è sorprendente come la vicenda di Barbablù conservi un’attualità spiazzante, che si offre a molteplici chiavi di lettura. In che modo è possibile offrirne una rilettura che metta in risalto tale caratteristica?
“La cosa interessante di questa messa in scena parte proprio dal testo. Una riscrittura molto bella, moderna, a opera peraltro di una donna, Costanza Di Quattro. E non è un aspetto secondario perché, proprio per questo, riesce a dare una visione abbastanza singolare di questa favola, che assume toni noir e anche i contorni di una confessione, perché vediamo il protagonista intento continuamente nell’atto di confessarsi, come se fosse un delirio lucido di pazzia in cui lui, già morto, ricorda tutte le donne che ha ucciso. È un continuo entrare e uscire dalla realtà: la favola di Barbablù, che è il cattivo, il mostro e il femminicida per eccellenza, è di un’attualità sconvolgente, basta guardare le cronache dei giornali… C’è sempre una donna uccisa senza nessuna ragione, se non quella di non avere 'obbedito' a degli ordini precisi o di non essere stata proprietà privata di chi, secondo lui, l’ha posseduta. È una realtà spiazzante perché una favola, che teoricamente dovrebbe essere raccontata ai bambini, ha in sé una crudeltà sconvolgente, ributtante e, purtroppo, quantomai attuale. Barbablù non è altro che lo specchio di una società che, ancora oggi, non riesce a dominare quell’istinto becero e animalesco che alberga in ognuno di noi e che, quando esce fuori, non fa nessun passo avanti. Riusciamo a farlo in tutti i campi, eppure rimaniamo ancorati al passato quando si tratta di dominare questi istinti. In quel momento potremmo tutti essere dei piccoli e vigliacchi Barbablù”.
Sembra quasi esserci un enigma di fondo nell’uomo che, in tutte le epoche, si è ritrovato a confrontarsi, spesso in modo doloroso, tra la sua identità razionale e quella dominata dall’istinto. Un tema peraltro caro alla letteratura…
“Esatto, soprattutto capire cosa spinge un uomo a compiere un’azione così violenta. Perrault, addirittura, dice che è la curiosità, in questo vede il male. Il problema è che, se ci facciamo caso, anche noi uomini di oggi non facciamo nulla di diverso perché, ogni volta che accade un fatto di cronaca, cerchiamo di capirne le ragioni, di trovare quasi una giustificazione più per lui che per lei. È una società, la nostra, anche voyeuristica. Con questo spettacolo vorrei provocare una reazione al pubblico, dirgli che, se siamo nella stessa condizione di Perrault, siamo anche potenzialmente in quella di essere Barbablù e lui, il pubblico, di essere quel giudice spietato intento a cercare una giustificazione per l’uomo che ha ucciso piuttosto che per la donna. Si tratta quindi di svegliare la coscienza, senza fare uno spettacolo retorico sulla violenza contro le donne e nemmeno l’apologia del mostro. Lo scopo è creare piccoli interrogativi: non riusciamo a fare piccoli passi avanti in questo senso perché non siamo in grado di comprendere la psicologia di un uomo che può compiere efferati delitti nei confronti di una donna. La favola deve insegnarci che non si può ricondurre tutto alla curiosità o alla follia: c’è un cortocircuito che si innesca e noi dobbiamo disinnescarlo. C’è un passaggio dello spettacolo in cui si dice: ‘Vogliamo cancellare l’onta della violenza di oggi parlando di Barbablù?”. Barbablù non è mai morto, ci rimorde ogni giorno nelle nostre coscienze, ci umilia, è una specie di anima che ci possiede. Perché, allora, vogliamo cancellare l’onta della violenza di oggi parlando di Barbablù?”
Una tematica che potrebbe ricordare il film M di Fritz Lang: lì, come in questo caso, il finale resta sospeso, con il difficile giudizio sulla vicenda lasciato a chi ha ascoltato e osservato…
“In questo caso, dopo aver ucciso sette donne, Barbablù si arrende, capisce che tutto questo lo stanca. Lui non ama queste donne, non vuole possederle ma cerca solo l’estasi dell’omicidio. Ce n’è una, di cui lui si innamora, e nella sua follia deve ucciderla per averla sempre con sé. Quando alla fine si stanca di questo e si fa uccidere, è perché ha trovato l’unica donna che lo ha reso nulla. Quell’indifferenza di quella donna, che non disubbidiva, accondiscendeva, era remissiva, lo spiazza e capisce di aver perso la sua ragione di ucciderla. E, per questa ragione, per lui non aveva più senso vivere. Ed è poi quando esce di scena che ci rendiamo conto come quest’uomo non muoia mai, albergando magari sopitamente in ogni uomo. Ed è questo, l’istinto, che dobbiamo controllare”.
In questo entra in gioco la carica espressiva del teatro, che all’interpretazione unisce la forza e l’impatto della recitazione dal vivo…
“Il teatro, indubbiamente, riesce a far passare un personaggio per la pietas della finzione, che riesce anche a essere educativa: nella realtà Barbablù è un mostro, ma nella favola può anche essere un personaggio con una sua morale. Questa è la funzione del teatro. Inoltre, questa è una messa in scena molto musicale e anche la parola è sonora nella recitazione. Il palco è allestito come se il personaggio fosse in una sorta di museo d’arte contemporanea in cui ha conservato pezzi di queste donne, ed è molto interessante la lettura registica che ha fatto Moni Ovadia”.
Quest'opera vuole quindi ricordarci come la società umana viva in ogni epoca la sua contemporaneità, proprio in virtù di un istinto che, ogni volta, torna a presentarsi nell'uomo che non perde la propria dicotomia di base?
“Esattamente. La morale di questo spettacolo però si racchiude in una frase che ben esemplifica il senso della storia: “Io l’ho raccontata per l’ultima volta, affinché non se ne parli più”. Nella speranza che tutto questo possa davvero finire. Perché, secondo me, tutto parte dal contesto, che sia sociale o familiare. E se anche tale contesto riesce a educare i ragazzi sin da piccolo ad avere rispetto di se stessi e degli altri, allora davvero questa cosa si può correggere. Non è un cancro incurabile, si può correggere con l’atteggiamento, così come combattiamo la mafia”.
Mario Incudine in scena – Foto © Max Valle