Non è mai solo musica quella che si ascolta. C'è un mondo intero dietro l'armonia fra testo e note, intere porzioni di sentimento, di esperienze, di vita vissuta. Tutto racchiuso nello spazio di pochi minuti, nei quali convogliare i moti del cuore e il proprio desiderio di autenticità. Caro Padre non è solo un inno ma un'occasione per conoscere e conoscersi, per specchiarsi negli occhi del “padre di tutti”, quale è stato e continua a essere san Giovanni Paolo II e cercare di comprenderne il messaggio, l'eredità, il mandato per ognuno di noi di aprire le porte del nostro cuore. Fabrizio Venturi, il cantautore toscano autore del brano – che salirà per una sera sul palco della 70esima edizione del Festival di Sanremo assieme ai Papaboys – in quelle righe ha però racchiuso una significativa parte di sé stesso: “Quando canto 'Caro padre' – ha raccontato a Interris.it – manifesto una parte di me, perché fra quelle parole c’è anche mio padre. E il messaggio arriva. Se non arriva così in quale altro modo potrebbe farlo?”.
Fabrizio Venturi, con Caro Padre assisteremo a qualcosa di importante sul palco di Sanremo, non solo a un inno per un grande santo ma a qualcosa di intimo e profondo. Da dove nasce questa canzone?
“Tutto nasce da Pompei, dove ero stato convocato assieme ad altri artisti come Ron, Mietta e il fratello Roberto Bignoli. Il primo maggio c’è una grande iniziativa dentro il Santuario di Pompei, e io ero stato chiamato per quell’occasione, nei giorni immediatamente successivi alla morte di papa Giovanni Paolo II. Fu monsignor Giovanni D’Ercole a farmi presente che era stata indetta la gara mondiale per l’inno ufficiale della Fondazione internazionale Giovanni Paolo II, la cui scadenza era per la fine di quel mese. Premetto che avevo già cantato due volte davanti a Giovanni Paolo II in occasione del Concerto di Natale nell’Aula Nervi, avendo peraltro l’onore di cantare il Magnificat di Beppe Cantarelli diretto dal maestro Leonardo Serio. Prima di venire a conoscenza del concorso, avevo già provato più volte a scrivere una canzone per mio padre che avevo perso pochi anni prima, senza però riuscirci. Non è mai facile scrivere qualcosa di tale profondità e che ti coinvolge così tanto a livello emotivo. Una notte, però, mi alzai con una figura in testa, quella di mio padre, e anche quella di Giovanni Paolo II. Mi venne in mente la frase 'Caro padre ti scrivo' e così mi misi al pianoforte. La canzone venne fuori da sola: da quella prima frase nacque l’intero brano, con parole dettate direttamente dall’anima. Il giorno seguente chiamai il mio team e demmo vita alla registrazione della canzone. Fu poi presentata al Vaticano e finì per essere scelta”.
Da lì inizia un percorso che, di tappa in tappa, ha reso Caro Padre un inno non solo per la Fondazione ma un po' per tutti coloro che hanno amato il santo Giovanni Paolo II…
“L’accordo era che la canzone non uscisse prima della beatificazione del Santo Padre. All’epoca se ne parlava ma non era ancora prevista. Avvenuta, invece, il brano è uscito e ha iniziato il suo cammino: sono stato due volte a Cracovia e anche nella chiesa di Niegowicz, dove ho fatto un concerto. Ho partecipato a varie iniziative di mons. D’Ercole, a programmi come Sulla via di Damasco, poi al Tg1, Uno Mattina… Questa è la storia di Caro Padre“.
E arrivi al Festival, con i Papaboys e la possibilità di far vivere un momento di riflessione quasi inedito su quel palco. Quale discernimento ti ha portato a questa decisione?
“Ho avuto l’idea di portare questa canzone a Sanremo in un momento secondo me estremamente difficile per il mondo di oggi. A volte ho l'impressione che non ci siano parole per descrivere le cose che accadono. Tutti quelli che io considero dei punti di riferimento, compresi l’amore, la fraternità, la gestione di sé stessi, i rapporti personali e nel sociale, sembra stiano venendo meno. È cambiato anche il modo di esprimersi, il linguaggio, a volte sembra quasi che venga riconosciuto maggior valore alle cose brutte piuttosto che a quelle belle. Per questo mi sono detto che la cosa più opportuna fosse portare un messaggio di pace. E quale posto migliore di Sanremo? Perché il linguaggio a me più consono è quello musicale, ciò che accade nella mia vita io lo riporto nel linguaggio della musica. E ho pensato che un’autostrada che portasse dritto al cuore delle persone fosse proprio quella di Giovanni Paolo II, perché lui ricucì gli strappi indelebili del mondo. E poi fu proprio il santo ad aprirmi il mondo della fede, che oggi vivo giornalmente… Lui è per me un padre spirituale, il padre di tutti i padri e il papa della porta accanto”.
E' sorprendente quanto, soprattutto di questi tempi, ci sia bisogno di ribadire un concetto come quello della pace, fin troppo spesso messo in discussione. Quanta importanza riveste la musica nel veicolare, attraverso i suoi testi, un invito a riflettere su questo tema che, nonostante tutto, non sembra così scontato?
“Analizziamo per un momento ciò che fa la musica: dalla donna che partorisce in sala, a volte favorita attraverso la musica, alle colonne sonore per i film, ai jingle pubblicitari o a chi semplicemente canticchia una canzone mentre lavora… Il messaggio della musica è universale e non ha bisogno di linguaggio nel senso letterale del termine: a volte capita di andare a vedere dei concerti in lingue che magari non conosciamo ma in cui riusciamo a essere coinvolti e colpiti dalle note e dal suono. Al di là delle frasi che vengono dette, perché poi le parole vengono dedotte dal cantante che si sta ascoltando e che magari conosciamo bene. La musica ha una potenza immensa: noi che la facciamo ogni giorno abbiamo la possibilità di parlare a tante persone tutte insieme, attraverso i concerti ma anche altri mezzi come può essere anche un’intervista… E più è celebre chi parla, più la voce è grande e il messaggio arriva agli occhi e ai cuori della gente”.
Ed è anche un modo per raggiungere chi, come i giovani, riceve continui stimoli, portati soprattutto dal mondo del web. La sensazione è che attraverso la musica si possa raggiungere quello spazio di riflessione anche su se stessi che la rete non consente di raggiungere…
“Il web lo definisco un rifugio ma secondo me è una condanna, perché i giovani di oggi vengono portati via da quella che è la realtà. Poi, al di là del genere ascoltato, di musica secondo me ne esistono due tipi: quella fatta bene e quella fatta male. Su quali testi appartengono all’una piuttosto che all’altra non sta a me giudicarlo ma è bene che i giovani ascoltino la musica. Ed è anche un impegno sociale riportarli a dei messaggi un po’ più impliciti, interni, viscerali anziché lasciarli a contenuti fin troppo effimeri”.
L'ora sanremese di Caro Padre sarà il momento in cui porterai su quel palco anche un po' di te… Cantare qualcosa di particolarmente significativo per sé stessi può far sì che il messaggio arrivi non solo più chiaro ma anche più vero?
“Il pubblico è molto sensibile e molto intelligente: quando sei su un palco ed emani un messaggio con il linguaggio della musica, il pubblico avverte la verità o il semplice esser lì. Il fatto di aver scritto una canzone che, pur essendo sociale perché Giovanni Paolo II è il padre di tutti, contiene anche una parte di sé stessi, indubbiamente contribuisce a farla arrivare, diventa più potente. Io, nel momento in cui canto Caro Padre, è vero che parlo di Giovanni Paolo II ma non canto solo l’inno della Fondazione: manifesto una parte di me, perché fra quelle parole c’è anche mio padre. E il messaggio arriva. Se non arriva così come potrebbe arrivare? Per questo ho avuto l’iniziativa di chiamare il presidente dei Papaboys, con il quale condivido una casuale omonimia, e presentargli il progetto che poi lui ha sposato. Si tratta anche di un nostro contributo alla realizzazione del Festival dove, dopo tanti anni, è stata ripristinata la Messa. Oltre a questo, ho pensato fosse anche un modo per dare un momento di ricordo al mio carissimo amico Roberto Bignoli, il cui sogno era quello di andare al Festival. È qualcosa che ho voluto fortemente e il più bel regalo è arrivato da sua moglie Paola, che ci ha ringraziato perché in questo modo era come se le avessimo riportato Roberto”.