Sono trascorsi quarant’anni da quella tarda mattina del 12 febbraio 1980 quando, sulle scale della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma La Sapienza, le Brigate Rosse uccisero Vittorio Bachelet, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, già presidente di Azione Cattolica. Qualche tempo prima, consapevole del pericolo che correva, lo Stato volle dargli la scorta. Ma lui la rifiutò fermamente per il timore di altre vittime innocenti. Era così Vittorio Bachelet: un uomo integerrimo nei ricordi dei cari e degli amici che lo hanno amato. È indicativo anche il luogo di quello che fu definito un “martirio laico“: l’Università, il cuore di formazione dei tanti giovani, vicino ai quali Bachelet desiderava stare. Perché egli era innanzitutto docente di Diritto Amministrativo, e così lo ricorda Rosy Bindi, che all’epoca era sua assistente e che fu la testimone diretta di ciò che avvenne.
Quali ricordi ha di Bachelet?
“Morì alle 11:40 dopo un colpo fatale. Lo ricordo ancora… e mi colpisce anche la scelta del luogo del delitto: l’Università, ch’egli considerava il luogo che più lo impegnava, dove si era formato dopo la guerra e dove sentiva di dover servire il nostro Paese”.
Perché si trattò di un luogo simbolico?
“Perché ancora oggi la formazione è importante, nelle università si formano le classi dirigenti del Paese. Se c’è un dato che preoccupa oggi è la disistima nella ricerca. E poi, nonostante la nostra tradizione italiana, nella ricerca non brilliamo. Ricordare Bachelet significa, dunque, anche ricordare la cultura e la scienza sono un patrimonio da tutelar e da far amare ai cittadini”.
Come si fa a rendere la cultura patrimonio di tutti?
“Innanzitutto, rendendo il diritto allo studio accessibile a tutti. L’insegnamento va, inoltre, impartito già nelle famiglie, e questo è possibile avendo una gerarchia di valori. Bachelet aveva la qualità di tener ben chiara la sua gerarchia di valori. Spesso oggi molte famiglie scelgono di investire meno nella cultura e formazione dei loro figli”.
Bachelet rifiutò la scorta. Qual è la sua riflessione su quanti chiedono protezione allo Stato?
“Credo che lo Stato abbia il dovere di valutare le persone in pericolo. Bachelet aveva fatto questa scelta ed era un sua, personale. Ma lo Stato avrebbe dovuto tutelare, per esempio, Marco Biagi. È sempre meglio una scorta in più che una in meno. Questo non significa che Bachelet non abbia avuto paura. Erano anni difficili…ma la paura – mutuando una frase di Borsellino – non gli tolse la libertà”.
Oggi commemoriamo molti uomini “martiri laici” degli Anni di Piombo. Però spesso sembra che si perda di vista una riflessione su quell’intero periodo buio…
“Io credo che quegli anni vadano studiati e capiti anche nelle scuole, perchè non si può legare l’iniziativa a un annversario. Sono stati anni pieni di contraddizioni, ma non dimentichiamoci anche di grandi riforme, come lo Statuto dei Lavoratori, l’edificazione del Sistema Sanitario Regionale, le Regioni, il diritto di famiglia… In quegli anni la democrazia italiana ha corso grandi rischi per combattere il terrorismo e rischiò di essere minata in questa lotta. Va spiegato che la democrazia italiana è stata salvata da uomini come Bachelet, che hanno continuato a versare il sangue a scapito di chi voleva privarci della democrazia. Come i beni preziosi, la democrazia è un bene che non si conquista una volta per tutte”.
Quale compito ci lascia oggi commemorare Bachelet?
“Figure come lui sono merce rare, la sua statura morale, la fede, il senso del servizio…Però dobbiamo anche pensare che oggi siamo maggiormente in dovere di avere più responsabilità: con la loro testimonianza non abbiamo scuse per sottrarci dai nostri impegni”.