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Quanto paghiamo davvero di tasse

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Funziona come per la temperatura: ce n'è una effettiva e una percepita. Allo stesso modo la pressione fiscale “reale” è diversa, addirittura superiore, a quelle risultanti dai dati ufficiali. Si attesta, secondo l'ufficio studi della Cgia di Mestre, al 48,3%, 6,1 punti in più rispetto a quella “ufficiale“. 

Le cause

“Se alle troppe tasse – dichiara il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo – aggiungiamo il peso oppressivo della burocrazia, l'inefficienza di una parte della nostra Pubblica amministrazione e il gap infrastrutturale che ci separa dai nostri principali competitori economici, non c'è da stupirsi, come è emerso in questi giorni, che serpeggi un certo malessere soprattutto tra gli imprenditori del Nordest. Tra le altre cose, a causa di tutte queste criticità continuiamo a rimanere il fanalino di coda in Ue per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri“.

Il fattore tempo

Secondo l'Ocse, prosegue Zabeo, “lo stock di investimenti diretti esteri in Italia in rapporto al Pil era, nel 2017, al 21,4%. Nessun altro paese europeo ha registrato un risultato inferiore al nostro. In altre parole continuiamo a non essere attrattivi”. E secondo il segretario della Cgia, Renato Mason, c'è dell'altro: “Oltre all'imponente sforzo economico che anche quest'anno i contribuenti sono chiamati a sostenere, gli italiani devono sopportare anche un costo aggiuntivo legato alle difficoltà nell'adempiere agli obblighi tributari. Secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale, infatti, in Italia sono necessarie 238 ore all'anno per pagare le tasse, contro le 139 richieste in Francia e le 110 previste nel Regno Unito. Un gap che ci fa capire quanto la cattiva burocrazia presente nel nostro Paese abbia allungato ingiustificatamente i suoi tentacoli”.

Il calcolo

L'Ufficio studi della Cgia, che da anni fa un monitoraggio attento sull'andamento della pressione fiscale “reale”, è giunta a questo livello (48,3%) ricordando che il nostro Pil nazionale include anche l'economia non osservata riconducibile alle attività irregolari che, non essendo conosciute al fisco, almeno in linea teorica non versano né tasse, né imposte e né contributi. Secondo l'Istat, infatti, nel 2015 l'economia non osservata ammontava a 207,5 miliardi di euro (pari al 12,6% del Pil); di questi, quasi 190,5 miliardi erano attribuibili al sommerso economico e gli altri 17 alle attività illegali. In questa metodologia di calcolo, comunque, non viene inclusa tutta l'economia criminale, ma solo quelle attività che si consumano attraverso uno scambio volontario tra soggetti economici (come il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione e il contrabbando di sigarette). Per gli anni 2016, 2017 e 2018 l'Ufficio studi della Cgia ha ipotizzato che il sommerso economico e le attività illegali incidano sul Pil nella stessa misura del 2015 (ultimo anno in cui il dato è disponibile). Ricordando che la pressione fiscale ufficiale è data dal rapporto tra le entrate fiscali/contributive e il Pil prodotto in un anno, nel 2018 al lordo del bonus Renzi questa è destinata a scendere al 42,2%. Tuttavia, se “togliamo” dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico e alle attivita' illegali che, almeno in linea teorica, non producono nessun gettito per l'erario, il Pil diminuisce (quindi si riduce il denominatore), facendo aumentare il risultato che emerge dal rapporto. Pertanto, la pressione fiscale “reale” che grava su lavoratori dipendenti, sugli autonomi, sui pensionati e sulle imprese che pagano correttamente le tasse è superiore a quella ufficiale di 6,1 punti: per l'anno in corso è destinata ad attestarsi al 48,3%. Anche se in calo rispetto agli anni precedenti, il peso complessivo del fisco rimane comunque ad un livello insopportabile. La Cgia tiene inoltre a precisare che la pressione fiscale ufficiale calcolata dall'Istat (nel 2018 prevista al 42,2 per cento) rispetta fedelmente le disposizioni metodologiche previste dall'Eurostat.
 

Francesco Volpi: