Tollerato il percorso verso il fine vita, la Corte Costituzionale ne fissa i paletti. Lo dicono chiaramente le motivazioni alla sentenza del 25 settembre scorso depositate oggi, con cui di fatto la Consulta traccia la strada che l'iter del cosiddetto “suicidio assistito” dovrà percorrere. Il caso è quello di Marco Cappato, dell'Associazione Luca Coscioni, che rischiava fino a dodici anni di carcere per aver accompagnato il 40enne tetraplegico Fabiano Antoniani a morire in Svizzera. Per la Corte Costituzionale, chi aiuta al suicidio “una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” non è punibile. Ma la sentenza stabilisce anche che “resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no ad esaudire la richiesta del malato”.
Cosa cambia oggi rispetto al 25 settembre, dunque? In Terris lo ha chiesto al Prof. Alberto Gambino, Presidente Nazionale dell'Associazione Scienza & Vita e Pro-Rettore Vicario all'Università Europea di Roma.
Dott. Gambino, cosa dice, nei fatti, questa sentenza?
“Questa sentenza, che ritiene che aiutare una persona in un momento estremo al suicidio non sempre sia punibile davanti ad alcune condizioni, non ha detto molto di nuovo, perché già nell'ordinanza di 11 mesi fa e nel comunicato della Corte di qualche mese fa si diceva che, davanti a certe condizioni, se si sostiene questo soggetto nel momento di porre fine alla sua vita, questo non è catalogabile come aiuto al suicidio”.
Qual è dunque l'elemento nuovo?
“Di questa sentenza, io prenderei questo profilo davvero molto interessante: accanto a quello che già sapevamo, e cioè che la sentenza apre alla possibilità di non punire qualcuno che aiuti un malato a morire, concretamente questo caso potrebbe non esserci mai, perché prima di tutto viene prospettata la terapia del dolore. La sentenza ha un elemento di novità perché dice che, quando il paziente si trova in condizioni di estrema sofferenza, il sistema sanitario nazionale deve prospettargli l'attuazione della Legge 38, sul lenimento del dolore. La sentenza sta dicendo una cosa in parte nuova, cioè sta elevando a livello costituzionale l'accesso alle cure palliative perché, se prima era un diritto ordinario, ora è stato costituzionalizzato”.
Questo cosa significa?
“Nell'aver affermato che i pazienti hanno diritto alla somministrazione delle terapie del dolore, la Consulta sta dando al Ministero della Salute e a tutto il Governo Italiano una sorta di ordine di attuare fino in fondo la Legge 38. Se non lo facesse, sarebbe comunque vietata qualsiasi apertura all'assistenza verso il fine vita”.
In concreto ciò cosa comporterebbe?
“Che sarebbe immediatamente incriminato chiunque dovesse aiutare qualcuno in quelle condizioni se non ha prima attraversato la possibilità delle cure palliative. Se, dunque, il paziente non ha neanche la possibilità di accedere alle cure palliative, perché vive in un territorio dove non è garantita assistenza domiciliare in riferimento alla palliazione, non c'è un hospice né una struttura adeguata, anche laddove dovesse chiedere un'assistenza nella morte, chi lo assiste sarebbe punito ex art. 580 del Codice penale, quindi sarebbe incriminato”.
Per quale motivo?
“Perché il paziente non avrebbe esercitato la sua scelta. Una delle quattro condizioni per procedere al suicidio assistito è che il paziente sia libero da condizionamenti ed abbia la possibilità di esprimere il suo consenso. Se un paziente non avesse la possibilità di attuare la palliazione, non sarebbe libero di operare la sua scelta. Quindi, se qualcuno lo aiutasse, sarebbe sottoposto all'art. 580 del Codice penale”.
Come si riflette la sentenza nel panorama italiano?
“Nel nostro Paese non c'è una significativa richiesta di morte procurata ma soprattutto assistenza e cura per i malati terminali. Consideri che è stato finanziato solo per un 10% rispetto a quanto previsto dalla Legge 38 e si tratta, comunque, di stanziamenti bassi”.
Qual è, dunque, il ruolo dello Stato alla luce della sentenza?
“Poiché il paziente non vuole soffrire e il dolore si riverebera nei familiari e nei cari, la missione dello Stato è prima di tutto lenire il dolore. Se questo non si realizza, neanche astrattamente si potrà mai parlare di una libertà del paziente, che sarà sempre condizionato dal dolore. Da un punto di vista sociale, se si riuscisse a lenire concretamente il dolore, tutte queste domande di morte anticipata sarebbero pochissime perché, soprattutto nella fase terminale, il problema è il dolore che si vuole combattere. Quando il paziente è straziato dal dolore, chiede di poter morire. I nostri ospedali reclamano, quindi, più cura, più terapia, non assistenza alla morte”.
Quali sono gli scenari che ci troviamo di fronte, a livello pratico?
“Ci sono due ipotesi. Nella prima, lo Stato non è pronto a somministrare una terapia del dolore e allora il paziente non può neanche chiedere l'assistenza al suicidio, perché chi lo assiste viene incriminato perché quella richiesta non era libera, visto che non gli è stata prospettata la terapia del dolore. La seconda ipotesi, invece, è che la terapia del dolore gli viene prospettata, a questo punto il dolore è fortemente contenuto e i casi in cui il paziente chiederà l'assistenza al suicidio saranno marginali. Da questo punto di vista si realizza appieno il non-abbandono del paziente, si ridimensiona molto il tema dell'autodeterminazione fragile dei pazienti vulnerabili.”
Questo come si riflette sulla legge di Bilancio che sta riscrivendo il Governo?
“La sentenza della Corte Costituzionale è di rango giuridico superiore alla Legge di Bilancio, che deve recepire l'indicazione degli investimenti nella terapia del dolore. Se non lo fa, tradisce il principio costituzionalizzato del diritto d'accesso alle cure palliative garantito a tutti i cittadini sofferenti. La sentenza, di fatto, impegna il Governo a mettere tanti milioni sulla rete dell'assistenza domiciliare e delle cure palliative proprio perché lo sta facendo diventare un diritto costituzionale”.