La diaspora del voto cattolico è “la” questione della politica italiana. Specie in un Paese nel quale, per 50 anni, la Democrazia cristiana ha dominato la scena a livello parlamentare, regionale e locale. Al tema Alessandro Campi – docente di scienza politica presso l'Università di Perugia e direttore della Rivista di politica – ha dedicato un interessante editoriale sul Messaggero. Noi lo abbiamo contattato per approfondire alcuni punti specifici e analizzare i motivi di questa progressiva irrilevanza dei cattolici sulla scena pubblica.
A quasi 25 anni dallo scioglimento della Democrazia cristiana (ricorreranno il prossimo 18 gennaio) possiamo dire che la diaspora del voto cattolico sia ormai irreversibile?
“In realtà, il voto cattolico era diffuso e pluralistico già ai tempi della Democrazia cristiana, anche se si tende a dimenticarlo. Il passaggio alla Seconda repubblica, con la scomparsa dalla scena pubblica del simbolo dello scudo crociato, ha accentuato la frammentazione sino a renderla definitiva. Il voto a Forza Italia proveniva da settori dell’elettorato moderato e ostile alla sinistra, ma era ormai ampiamente svincolato dalle appartenenze di fede, al di là dei rapporti strumentali di collaborazione che Berlusconi ha sempre intrattenuto con le gerarchie vaticane, che peraltro non lo hanno mai particolarmente amato proprio per il suo esibito libertinismo. La mia impressione è che oggi un voto politico riconoscibile come cattolico sopravviva in modo residuale all’interno del Partito democratico-progressista e nei settori tradizionalisti della Lega. Sopravvive ancora assai forte un protagonismo politico-mediatico della Cei e naturalmente del papato, ma è una presenza istituzionale che poco incide sul dibattito pubblico e soprattutto sulle scelte dei governi”.
Citando un articolo del card. Becciu lei sottolinea che il vero problema è rappresentato dalla progressiva irrilevanza dei cattolici sulla scena pubblica. Ma come è possibile acquisire maggior peso politico in assenza di un partito strutturato e decisivo per gli equilibri sociali e, soprattutto, parlamentari?
“Per dare voce pubblica ai cattolici non è detto che serva una forza politica organizzata che li raccolga in modo unitario. Quando un simile partito è esistito si è visto che non è bastato a indirizzare la società e la politica secondo i valori cristiani. Al tempo stesso, la forza del cattolicesimo politico italiano è sempre stata rappresentata dall’associazionismo e dai movimenti, dalla presenza sul territorio di una fitta struttura di organizzazioni sindacali, ricreative, culturali, ecc. Il problema è che anche quest’ultima negli ultimi anni si è indebolita, anche perché – questa la mia impressione – poco sostenuta dalla Chiesa ufficiale. Aggiungo che il mondo cattolico, forse per un problema di linguaggio, ha difficoltà a muoversi nell’universo delle nuove tecnologie digitali e a fare rete attraverso i social. Questo lo rende ancora meno visibile e silente di quanto in realtà sia”.
C'è, poi, forse anche un altro dato: a livello territoriale le parrocchie non hanno più quella capacità attrattiva e di diffusione di un messaggio non solo religioso, ma anche politico, come invece avveniva durante la Prima Repubblica…
“La crisi delle vocazioni ha ovviamente indebolito la struttura territoriale della Chiesa e dunque la sua forza di influenza dal basso. L’Italia delle parrocchie, intese come luogo di socializzazione e incontro, è un mondo anch’esso in crisi. Ma se in Italia il problema comincia ad essere serio, in altri Paesi d’Europa è addirittura drammatico. La mancanza di sacerdoti, la riduzione dei fedeli e dei praticanti, le difficoltà finanziarie, la pressione mediatica sulla Chiesa a partire da una vicenda oggettivamente drammatica ma anche ampiamente strumentalizzata come quella degli abusi sessuali, stanno portando alla chiusura di monasteri, conventi, strutture religiose e luoghi di culto, in alcuni casi di incomparabile valore storico, alla loro vendita a privati o alla loro trasformazione in abitazioni, esercizi commerciali e centri ricreativi. Spariscono luoghi simbolici intorno ai quali nel corso dei secoli, in molte parti d’Europa, si erano costruire specifiche forme di socialità e che erano anche stati spazi formativi. Dinnanzi a questa profonda catastrofe culturale l’afasia politica dei cattolici è persino un problema minore, figlio comunque delle trasformazioni accennate”.
Prima ha parlato di avvicinamento fra elettorato tradizionalista e Lega. In generale crede che i partiti sovranisti vengano percepiti come più affidabili sul fronte, ad esempio, dei cosiddetti “principi non negoziabili”?
“La virata cattolico-tradizionalista della Lega ha molto di strumentale e di propagandistico. Ma non c’è dubbio che questa virata, con la quale Salvini ha mandato in soffitta tutto il vecchio simbolismo pagano-celtista caro a Bossi, abbia intercettato una condizione di grande smarrimento di vaste aree dell’elettorato cattolico. Che sul tema dei valori non negoziabili teme non tanto un cedimento valoriale della Chiesa, quanto la sua crescente incapacità a farsi sentire e a contare nel dibattito pubblico. Le parole del Papa sull’emigrazione vengono sempre enfatizzate dai media. Quando parla contro l’aborto o a difesa della famiglia si scontra invece contro un muro di indifferenza. Da qui la tentazione di affidare alla politica, in una chiave che però rischia di essere pericolosamente ideologica, la difesa della propria visione ideale e dei propri valori”.
Più che di secolarizzazione lei parla di progressiva scristianizzazione della storia europea, cioè di volontario disconoscimento del ruolo svolto dalla nostra religione nella costruzione di questa parte di mondo. Può essere anche la vocazione stessa dei principi cristiani a tradursi in valori civili universalmente riconosciuti a favorire questa evanescenza dell'origine religiosa e culturale?
“La Chiesa è universale per vocazione, ma la sua forza dal punto di vista storico-istituzionale risiede nel modo con cui essa ha intrecciato il suo destino con quello dei popoli europei che il cristianesimo ha contribuito a plasmare. Non so cosa potrebbe accadere se venisse meno questo legame. L’impressione talvolta è che questo pezzo di mondo, giunto probabilmente alla fine del suo arco vitale dopo aver rappresentato per secoli il centro del mondo, nel bene come nel male, venga considerato come perso o irrecuperabile rispetto al diffondersi di una cultura e di una mentalità che non si possono definire altrimenti che come post-cristiane e integralmente secolariste. L’interesse crescente della Chiesa per l’Africa, per alcune parti dell’Asia e per l’America latina nasce probabilmente da un interesse al tempo stesso spirituale e geopolitico: sono zone del mondo dove si ritiene ancora possibile esercitare un’efficace azione evangelizzatrice, laddove la Vecchia Europa sembra incamminata, agli occhi della Chiesa, verso un futuro in cui la fede e la pratica religiosa, del tutto prive di rilievo pubblico, saranno pertinenza solo di piccole minoranze. Ma se si ritiene che la scristianizzazione avanzi, bisognerebbe combatterla, invece che accettarla come un destino ineluttabile”.