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Parla Sabella: “Io, un cacciatore di mafiosi”

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La strage di Capaci ebbe un impatto devastante sulla vita tutti i magistrati in Sicilia, compresi quelli che, in quel momento, non si occupavano di mafia, come me. Anche perché arrivò poco dopo l'omicidio di Rosario Livatino. Capimmo di essere tutti in pericolo. Cosa Nostra aveva cambiato la sua politica, aveva deciso di colpire lo Stato, e noi ne facevamo parte”. Alfonso Sabella ricorda gli anni più duri di una carriera di trincea. Perché occuparsi di mafia e latitanti, a inizio anni 90, significava realmente uscire di casa non avendo la certezza di rientrarvi. Un “cacciatore di mafiosi“, come il titolo del suo libro, pubblicato nel 2008 e diventato materiale per la fiction di Rai2 “Il cacciatore“. Sabella conosce come pochi non solo il fenomeno malavitoso, ma anche la sua evoluzione e lo ha combattuto in una doppia veste, da magistrato prima e da amministratore poi, nella breve esperienza da assessore alla Legalità di Roma Capitale con delega a Ostia, territorio che non ha esitato a paragonare alla Corleone degli anni 70. In Terris lo ha intervistato. 

Fu necessaria una riorganizzazione della magistratura per combattere Cosa Nostra…
“Tutto cambiò con l'arrivo di Giancarlo Caselli alla guida della Procura di Palermo: i metodi investigativi furono rivoluzionati. Fece sua l'idea di Falcone di far adattare l'Antimafia alla mafia, se Cosa Nostra era divisa per ambiti territoriali anche le Dda dovevano lavorare su singole zone. Non solo, optò anche per il coordinamento unitario, affidato a uno o più magistrati, delle indagini sulla ricerca dei latitanti, che in quel momento era la nostra priorità assoluta. In questo modo si evitava la dispersione di informazioni. E' stata la nostra arma vincente”. 

Quando cominciaste a capire che c'era la possibilità di arrivare agli autori degli attacchi allo Stato?
“Non ci fu un momento preciso, però capii che con quel nuovo metodo avremmo potuto ottenere risultati. Lo applicai fino in fondo, a volte attirandomi critiche per qualche gelosia tra le forze di polizia, perché spesso ti trovavi a dover girare informazioni a una piuttosto che a un'altra”.

Come arrivavate ai latitanti?
“La nostra strategia era molto programmata, cercavamo di isolare il latitante, la cosiddetta tattica della 'terra bruciata'. Con le prove in mano facevo arrestare tutte le persone intorno al ricercato, lasciandone libere al massimo due, in modo che dovesse rivolgersi per forza a quelle. Va però detta una cosa…”

Quale?
“Raggiungere quei risultati fu possibile perché lo Stato, in quel momento, metteva a disposizione tutto quello di cui avevamo bisogno: mezzi, uomini e risorse. La lotta alla mafia era una priorità assoluta a quei tempi…”

Lascia intendere che oggi non sia più così…
“Assolutamente no e non solo da oggi. Attenzione però: ai tempi c'era uno Stato devastato dalle bombe, perché dopo Capaci e via D'Amelio ci furono gli attacchi di Roma, Firenze e Milano. Ricordo ancora la faccia di Ciampi quando arrivò a piazza della Signoria dopo l'attentato agli Uffizi, era il volto di uno Stato inerme, che non capiva cosa stesse succedendo. Da lì, però, partì la riscossa. Sa, a tal proposito, quale è stata la più grande soddisfazione della mia carriera?”

No…
“Smentire Antonino Caponnetto, un autentico mito per me. Ricordiamo tutti le sue parole dopo la morte di Borsellino: 'E' finito tutto'. Gli abbiamo dimostrato che non era finito nulla, che, anzi, era l'inizio del riscatto”. 

E' iniziata, però, anche la metamorfosi della mafia…
“L'abbiamo costretta a cambiare strategia. Dopo gli arresti, l'azzeramento dell'ala stragista e della sua potenza militare, con il passaggio di consegne da Bagarella a Provenzano Cosa Nostra ha scelto un profilo basso, quasi di sommersione. Da lì lo Stato ha iniziato a sottovalutarla, si è cominciato a parlare – scusi il neologismo – di 'convivibilità' e si sono abbassate le difese. Si è sottovalutata, in particolare, la 'ndrangheta, che ha raggiunto un livello di crescita preoccupante”.

E' il 'mondo di mezzo' di cui parlava Carminati il nuovo schema operativo delle organizzazioni criminali?
“E' indicativo di una certa evoluzione del fenomeno. Mi spiego: in una prima fase, che arriva sino alla metà degli anni 80 la mafia dei palermitani – quella di Bontate per capirsi – conviveva con lo Stato, occupando gli spazi lasciati liberi; con l'avvento di Riina abbiamo invece una mafia che sfida lo Stato; con la fine della fase stragista c'è una mafia che tratta con lo Stato. Oggi la mafia ha capito che lo Stato è più facile comprarselo. E qui arriviamo a 'mondo di mezzo', che tuttavia, rappresenta un caso per molti versi irripetibile visto che, fortunatamente, è stato subito smontato dalla magistratura romana”.  

Quando era assessore di Roma Capitale ha ricevuto anche le deleghe su Ostia, territorio entrato prepotentemente al centro delle cronache giudiziarie…
“Ho svolto quell'incarico per quattro mesi cercando di portare una ventata di legalità, dei rimedi a cose evidenti. Mi sono accorto, ad esempio, che Vito Triassi, legato a Cosa Nostra e vicinissimo al boss Pasquale Cuntrera, gestiva uno stabilimento. O che uno dei rampolli della famiglia Spada gestiva abusivamente una palestra in un locale del Comune. Entrambi sono stati allontanati. Quando vuole l'amministrazione può anticipare l'azione della magistratura”. 

Lei ha paragonato il quartiere litoraneo alla Corleone degli anni di Riina. Quali analogie vede?
“Guardi, un siciliano che ha a che fare con la mafia si rende conto subito di quando si verificano situazioni particolari. Ero osservato, seguito, pedinato, ne sono certo. Poi le 'coincidenze': la mia più stretta collaboratrice, Silvia Decina, appena arrivata è stata fatta oggetto di strani lanci di sigarette e altro dai tetti, alla direttrice del municipio di Ostia, Virginia Proverbio, è stato subito rotto il vetro dell'automobile parcheggiata negli spazi riservati al personale del Comune, la responsabile dei servizi sociali che avevo portato, infine, ha subito un brutto tentativo di violenza, riportando gravi lesioni. Come la Corleone degli anni 70, poi, c'era un clima di controllo, figure – come alcuni gestori di stabilimenti balneari – paragonabili ai campieri che decidevano chi poteva lavorare e chi no e, in ultimo, si negava l'esistenza della mafia”.

Quindi la mafia a Roma esiste?
“Roma non è una città mafiosa, ma le mafie sono presenti sul suo territorio. Eppure si continua a negarlo e a stupirsi, come nel caso del funerale di Vittorio Casamonica con la carrozza e la musica de 'Il Padrino'”

Un modello di sindaco alla Rudy Giuliani, con poteri anche in materia di pubblica sicurezza, potrebbe essere utile per sradicare il fenomeno nelle città?
“Pensi che per ripristinare la legalità a Roma mi sono avvalso della collaborazione di Rose Gill Hearn, responsabile della Municipal Integraty di New York. Un modello, quello della Grande Mela, che avevo preso ad esempio per rendere efficienti le procedure degli affidamenti pubblici senza rinunciare ai controlli. Con l'avvento del commissario prefettizio il tutto è rimasto in un cassetto”.  

Dalla mafia alla corruzione, le indagini in Umbria e in Lombardia se troveranno riscontri a livello processuale ci proietteranno dentro una nuova Tangentopoli? 
“In realtà Tangentopoli non è mai finita, si è solo trasformata, per necessità. Non abbiamo più le maxitangenti, ma tante mini mazzette. Il sistema di legalità, in questa fase, è più debole. Un tempo grandi corrotti e corruttori erano, tutto sommato, pochi, oggi, invece, il fenomeno impera in tutta la burocrazia. Anche se a noi piace parlare solo della politica…”

Sarà perché fa più rumore… 
“Sì ma, ripeto, il vero cancro è rappresentato dalla fragilità e corruttibilità della nostra burocrazia. Le faccio un esempio: dai processi su Mafia Capitale è emerso che per corrompere un consigliere comunale, dunque un politico di primo livello, Buzzi e Carminati avrebbero investito circa mille euro al mese, mentre per ottenere i favori di un geometra che gestiva avrebbero pagato 572mila euro. Ecco: dopo la legge Bassanini le mazzette sono passate dalla politica alla burocrazia e sono tantissime”. 

Le leggi che ci sono bastano per combattere questa piaga?
“In Italia basterebbe una legge sola, che però non si farà mai: quella sulla regolamentazione dei partiti. Serve una normativa che fissi regole minime, che capisca come forze politiche in grado di incidere sul presente del Paese debbano essere governata. Fatta questa si potrebbe anche reintrodurre il finanziamento pubblico, ci costerebbe meno”. 

Luca La Mantia: