La macchina è un'arma“. Ce lo dice la saggezza popolare tramandata dai nostri nonni; lo dimostra, drammaticamente, la strage quotidiana va in scena sulle nostre strade a cadenza quotidiana. Nove vite falciate ogni giorno in Italia, cui si aggiungono i feriti e gli invalidi. Da anni l'Osservatorio nazionale per la tutela delle vittime dell'omicidio stradale (Onvos) offre una prima consulenza legale gratuita ai parenti e alle vittime. Attività cui si aggiunge quella di studio delle norme e della giurisprudenza, con il fine di promuovere iniziative istituzionali e di riforma. Del fenomeno abbiamo parlato con l'avvocato Piergiorgio Assumma, che dell'Onvos è il presidente.
Ricordiamo i bollettini “di guerra” di qualche anno fa in prossimità dei periodi vacanzieri o nel weekend. Avverte una minore attenzione sul tema della sicurezza stradale?
“Non da un punto di vista giornalistico, dove l'attenzione continua a esserci. Se parliamo, invece, di società civile e istituzioni il discorso cambia”.
Eppure i numeri del fenomeno sono spaventosi…
“Purtroppo sì. Nell'ultimo anno sulle strade italiane sono morte 3.378 persone, vale a dire circa 10 volte le vittime del terremoto di Amatrice. Ma se un sisma, come quello che ha colpito il Centro Italia, gode del massimo dell'attenzione, così non avviene per questa strage continua, che ogni giorno si porta via 9/10 vite. Il fenomeno resta silente, quando invece si dovrebbe fare in modo che chi si mette al volante sappia a quali rischi va incontro, ad esempio, se ha consumato alcolici”.
A quanto ammonta il costo sociale?
“Nel 2017 i casi di omicidio e lesioni stradali sono costati 19,3 miliardi di euro, vale a dire l'1,1% del Pil italiano. Mi chiedo: quanto risparmieremmo facendo prevenzione? Mettiamo che una campagna di pubblicità progresso, associata a percorsi formativi costi 1 miliardo di euro. Abbattendo l'incidentalità ci sarebbero più di 18 miliardi di uscite in meno”.
Come risvegliare le coscienze?
“Bisogna agire su due fronti: il primo è personale, serve consapevolezza; il secondo è educazionale. Non basta insegnare a riconoscere la segnaletica e le parti di un motore o le tecniche di parcheggio, serve uno sforzo ulteriore, che dovrebbe diventare obbligatorio. Occorre conoscere i rischi potenziali e come reagisce il cervello a determinate sollecitazioni, come lo stato di ebbrezza. Ad esempio non tutti sanno che una volta superato il valore di 1,5 grammi di alcol per litro di sangue gli impulsi cerebrali risultano sdoppiati, quindi magari io penso di frenare e invece accelero. La stessa cosa andrebbe fatta anche per l'uso del cellulare in auto, una delle prima cause di omicidio stradale”.
Non andrebbe preso in considerazione anche un ulteriore inasprimento delle pene?
“Certo, bisogna agire a monte e a valle: con l'educazione e l'inasprimento delle pene. Non dobbiamo dimenticare che le norme penali hanno un effetto deterrente”.
Negli Stati Uniti, ad esempio, è previsto il carcere per determinate violazioni del codice penale…
“E' vero, ma va anche considerato il modello di società. Quella americana è basata sull'etica morale. Questo consente loro di avere, in diversi ambiti compreso quello della circolazione stradale, una sensibilità di base superiore. Basti pensare che l'omicidio veicolare – omologo del nostro omicidio stradale – viene insegnato nelle scuole guida. In Italia questo non avviene”.
Ha parlato della fattispecie penale dell'omicidio stradale, introdotta due anni fa nel nostro ordinamento. Il bilancio è soddisfacente o è necessario qualche ritocco?
“Servono nuovi interventi. Come Onvos abbiamo fatto due proposte di riforma; la prima riguarda l'introduzione del prelievo coattivo del sangue per accertare l'effettivo stato di ebrezza o l'uso di sostanze stupefacenti, visto che sia l'alcol test, sia il drug test – attualmente utilizzati – possono dare dei falsi positivi. La seconda, invece, prevede l'inserimento, fra le aggravanti, dell'uso del cellulare. Questo si verificherebbe attraverso una perizia ad hoc, altro strumento di indagine di cui dovrebbero disporre le forze dell'ordine”.
Molte assicurazioni stanno proponendo ai loro clienti l'istallazione di una sorta di scatola nera nell'automobile. Può essere utile?
“Sì, anche se servirebbe più a monitorare l'andamento del veicolo. Andrebbe, invece, verificato qual è stato il comportamento del conducente”.
Culturalmente, quando si parla di sinistri mortali, siamo portati a pensare alle autostrade e alle statali. Eppure in città avvengono quasi quotidianamente. Sono le metropoli la nuova sfida?
“Le rispondo con dei numeri: il 74,6% degli omicidi stradali avviene sul circuito urbano, il 20% sulle strade statali e solo il 5,4% in autostrada. Quindi, sì, la vera sfida è all'interno delle città”.
A Roma in alcuni tratti della via Cristoforo Colombo il limite di velocità è stato abbassato a 30 km/h. Può essere una soluzione?
“Credo poco a queste limitazioni. Esistono Paesi, come la Germania, dove non ci sono limiti di velocità, eppure il fenomeno degli incidenti è inferiore al nostro. Spesso uccidere non è la velocità in quanto tale, ma la differenza tra andature. Se io sto andando a 80 all'ora e mi distraggo col cellulare potrei impattare sulla vettura di un altra persona che magari sta rispettando il codice. A causare l'incidente non è, quindi, tanto la velocità, ma la differenza tra le due andature e la variabile della mia distrazione. Con questo, ovviamente, non voglio giustificare chi corre”.
Sulle autostrade Tutor e Virgilio sono la nuova frontiera sotto questo aspetto, mentre sulle statali e in città si sta puntando ancora sugli autovelox. E’ un sistema che funziona o, come sostiene più di qualcuno, è obsoleto e alcuni casi addirittura un rischio?
“I tutor hanno un effetto deterrente a fronte di una velocità costante. Quando parliamo di autovelox, invece, torna il discorso che facevamo sulla velocità. Se sto correndo e freno improvvisamente perché ne avvisto uno, corro il rischio di essere tamponato da chi mi sta dietro. Tutto, anche in questo caso, dipende dal comportamento di chi è al volante”.