Contro il terrorismo il ricorso alle armi non è una scelta ma una necessità. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, non cerca buonismi o facili soluzioni, sa che quella lanciata dalla jihad è una guerra in piena regola e le guerre non si combattono solo con la diplomazia. “Per contrastare il terrorismo è inevitabile il risvolto militare – ha spiegato in un’intervista al Corriere della Sera – . Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma questi gruppi vanno affrontati anche sul piano militare. Non userò la parola combattere, altrimenti mi ritrovo nei panni del crociato…”. Per l’Italia nessuno scenario è escluso, compreso l’uso della forza. “Facciamo parte di una coalizione militare anti Daesh impegnata soprattutto in Iraq e in Siria – ha detto -. Ma in futuro si potrebbe valutare l’opportunità di contribuire al contrasto del terrorismo in Libia o di fenomeni come Boko Haram in Nigeria, per esempio. I carabinieri italiani sono impegnati in Somalia per contribuire alla formazione e all’addestramento delle forze armate locali che devono combattere proprio contro i responsabili della strage di Garissa. Insomma, c’è una dimensione militare”.
Gentiloni sta seguendo da vicino l’evoluzione dell’Isis, anzi del Daesh, come preferisce chiamarlo lui, “lo ritengo un gesto di controinformazione – ha sottolineato il numero uno della Farnesina – rispetto a chi si attribuisce il ruolo di stato islamico e si autoproclama califfo”. Per affrontare il problema occorre sostenere con decisione chi, nell’ enorme sfida politico-culturale in atto dentro il mondo islamico, si impegna contro il terrorismo.
“‘Voi potete aiutarci ma siamo noi che dobbiamo sconfiggere i rinnegati’, mi ha detto proprio il re di Giordania. Identiche parole sono venute dal presidente egiziano Al Sisi e dall’Imam di Al Azhar, Sheikh Ahmed al Tayeb. E per le stesse ragioni dobbiamo cercare di favorire, per quanto è nelle nostre possibilità, una convivenza tra sunniti e sciiti”. E aggiunge: “Secondo quanto risulta ai maggiori Paesi occidentali e a noi, è prematuro immaginare una confluenza di diversi gruppi jihadisti nel Daesh. Ciò che sta certamente accadendo, penso a Boko Haram, è che i cupi vessilli neri del Daesh vengono usati da raggruppamenti differenti come in un macabro franchising del terrore, perché quel marchio ha un chiaro impatto mediatico”.