Significativamente lo scrittore Mario Puzo diceva che si era ispirato a sua madre per costruire, nella psicologia e nel retroterra culturale, don Vito Corleone personaggio principale del suo libro “Il padrino”, poi divenuto una saga cinematografica da Oscar. Secondo i dati Transcrime, riferiti dal Corriere della Sera, un terzo degli azionisti di società confiscate alle mafie è donna, il doppio rispetto alla media delle aziende italiane legali. Eppure tra i condannati per associazione di stampo mafioso solo il 2,5% è donna. Che cosa sta succedendo nel rapporto tra donne e mafia? Tra le donne e l’universo maschilista per antonomasia? “Vicende di cronaca, ricerche scientifiche, testimonianze, dicono che se è vero che si aprono carriere femminili anche dentro alcune organizzazioni mafiose, è altrettanto vero che il muro dell’omertà e della sudditanza femminile va sgretolandosi – sottolinea LaPresse -.Che il rifiuto, l’abbandono, la defezione delle donne sono diventati una realtà concreta, nonostante la ferocia di reazioni che avrebbero dovuto “educare” per sempre gli spiriti ribelli. Non solo, nella società italiana va sempre più estendendosi, e diventando maggioritaria, la partecipazione delle donne ai movimenti antimafia, dalla scuola al teatro, dalla ricerca all’associazionismo”.
Comunità scientifica e civile
La nona edizione della Summer School on Organized Crime (9-13 settembre 2019) del Dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università degli Studi di Milano, un appuntamento ormai fisso per la comunità scientifica e civile, vuole dunque offrire una preziosa occasione di aggiornamento e confronto su un tema che investe le disuguaglianze di genere, i costumi civili, i processi educativi, il diritto di famiglia, l’antropologia culturale. “Per cinque giorni sociologi, magistrati, ex detenute, giornalisti, attori, registi, uomini di chiesa, esponenti politici, mescoleranno scienza sociale e arte, informazione e giustizia, fede e testimonianze di vita, per mettere a fuoco un fenomeno in grado di “disorientare” la mafia, di privarla di certezze secolari – evidenzia LaPresse -.Una possibilità da esplorare e capire fino in fondo per non perdere una grande occasione di cambiamento”.
Figure sempre più centrali
“Le mafie hanno spostato sulle figure femminile molte delle attività economiche per tutelarsi dalle confische e per nascondere i reali beneficiari”, dichiara al Corriere Alessandra Dino, docente di sociologia giuridica e della devianza all'Università di Palermo. Nelle imprese confiscate per mafia, il settore economico con maggiore presenza di donne è quello della ristorazione e alberghiero (52% di azionisti sono donne), seguito dal commercio all'ingrosso e al dettaglio (38%), trasporti (37,8%) e costruzioni (28,5%)”. In particolare, “nelle costruzioni e nei trasporti le donne titolari di aziende “mafiose” sono quattro volte più frequenti che nelle aziende pulite”, spiega al Corriere Michele Riccardi, ricercatore di Transcrime. E aggiunge: “Rappresentano il prestanome perfetto poiché generalmente presentano meno precedenti penali, vengono rilevate con meno frequenza nei processi di due diligence di banche e altri soggetti obbligati e, specialmente se appartenenti alla famiglia, consentono di tenere il controllo delle imprese in-house”. Quindi, osserva Alessandra Dino, “il semplice fatto di trovarle come intestatarie di beni non può però essere interpretato come un indicatore della loro “passività”: sono numerosi gli esempi (in Cosa Nostra e nella ‘Ndrangheta) di figure femminili protagoniste e attive nella gestione degli affari familiari”.
Al 416 bis
Un dato in particolare esprime quanto le donne siano funzionali a tenere sotto traccia le attività mafiose: tra i condannati per associazione di stampo mafioso, secondo il centro studi, in media solo il 2,5% è donna. Una percentuale bassissima: ma in crescita rispetto al passato. Per capirlo, è sufficiente dare uno sguardo ai dati. Nel 1989 era stato aperto un solo procedimento nei confronti di una donna per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Sei anni dopo sono diventati 89. “Non si è verificato un reale aumento del numero di donne imputabili del reato associativo previsto dal 416 bis, semplicemente è mutato l'atteggiamento dei magistrati verso il mondo femminile mafioso”, precisa la professoressa Dino. Fino ai primi Anni ‘90 i reati commessi da una donna venivano infatti inquadrati giuridicamente in maniera diversa rispetto agli stessi crimini commessi da un uomo. “Pensiamo alla detenzione illegale di armi da fuoco, per esempio. Leggendo le carte processuali risulta come, nel caso fosse coinvolta la moglie di un mafioso, questo comportamento venisse spesso inquadrato come favoreggiamento – afferma Alessandra Dino al Corriere -. Una volta si pensava che la donna fosse presente perché obbligata a delinquere dai congiunti o perché volesse proteggere i familiari”. Inoltre “il fatto che le donne, secondo il codice” mafioso, non possano associarsi al clan attraverso il rito di affiliazione ha reso a lungo più complessa l’attribuzione del reato di mafia alle figure femminili: basta chiedere a qualsiasi magistrato antimafia: al termine delle indagini e in fase di autorizzazione agli arresti, il pubblico ministero sceglie per l'imputato il reato più probabile di condanna”. E “risale solo al 1999 la prima sentenza della Corte di Cassazione che dichiara esplicitamente l’imputabilità delle donne per 416 bis anche in assenza di una loro formale affiliazione”.