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La Corte dei Conti: metà del nostro stipendio se ne va in tasse e contributi

La metà dei nostri stipendi se ne va per pagare tasse e contributi. Lo si evince dall’ultimo rapporto sulla finanza pubblica della Corte dei Conti, secondo cui il cosiddetto “cuneo fiscale” si mangia circa il 49% del reddito da lavoro dipendente un livello che “eccede di ben 10 punti l’onere che si registra mediamente nel resto d’Europa”.

Nonostante i progressi degli ultimissimi anni – spiegano i giudici contabili – la pressione fiscale è ancora troppo alta, sia sulle imprese che sui lavoratori tale da non riuscire a disincentivare il sommerso e l’evasione. Se infatti i dipendenti si vedono arrivare in busta paga poco più della metà di quanto versa il datore di lavoro, meglio non va agli imprenditori. Il total tax rate che grava su un’impresa di medie dimensioni ammonta – tra oneri societari, contributivi, per tasse e imposte indirette – al 64,8% e, in questo caso, “eccede di quasi 25 punti l’onere per l’omologo imprenditore dell’area Ue”.

Non solo. I costi di adempimento degli obblighi tributari che il medio imprenditore italiano deve affrontare ammontano in 269 ore lavorative, il 55% in più di quanto richiesto al suo competitor europeo. Sul fronte fiscale molto resta quindi da fare, anche per esempio sul fronte delle tax expenditures, riforma sempre annunciata ma mai realmente affrontata, e che – anche in questa tornata – sta tornando di attualità in vista della messa a punto del Documento di economia e finanza e del Piano nazionale delle Riforme. Proprio guardando alle strategie di politica economica del governo, la Corte invita alla cautela nell’utilizzare i proventi dalla lotta all’evasione, “per loro natura incerti”, come fonte di gettito stabile e su cui basare aumenti di spesa o riduzioni di entrate certe e giudica il settore dei giochi ormai “saturo” e nel medio periodo non più troppo redditizio.

Quasi un monito per la correzione strutturale che dovrebbe avere tra i capisaldi proprio l’emersione fiscale e, secondo alcune ipotesi, anche un ulteriore inasprimento sui giochi. Stesso dicasi per le privatizzazioni: il calo del debito, secondo in Europa solo a quello greco, è doveroso ma non è detto che le dismissioni del patrimonio pubblico possano avere effetti “determinanti nel breve-medio periodo. E d’altra parte in un contesto di crescita moderata, riduzioni rapide del debito potrebbero essere eccessivamente costose”, notano i magistrati. Meglio quindi puntare sulla crescita economica tramite le riforme strutturali. Attenzione andrebbe posta anche sugli investimenti: il loro calo preoccupa, perché potrebbe causare una violazione “dell’apposita clausola invocata dal governo per ottenere margini di flessibilità” rispetto agli obiettivi europei.

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