La collaborazione non sarà un requisito necessario per ottenere permessi premio durante la detenzione: lo stabilito la Corte Costituzionale che, con il pronunciamento arrivato qualche ora fa, ha sentenziato l'illegittimità dell'articolo che stabilisce la sospensione di tali permessi in assenza di collaborazione con la giustizia (il 4 bis, comma 1). Tale concessione riguarderà anche gli ex affiliati mafiosi, a condizione che venga fornita prova ritenuta inconfutabile di una totale rescissione dei loro legami con la criminalità organizzata, la quale dovrà essere dimostrata anche attraverso la partecipazione al percorso di rieducazione: “La Corte Costituzionale – si legge nel comunicato ufficiale diramato a seguito del pronunciamento – si è riunita oggi in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sulla legittimità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia. In entrambi i casi, si trattava di due persone condannate all’ergastolo per delitti di mafia”.
Le motivazioni
In merito alla questione del percorso rieducativo, la Corte ha spiegato che “in questo caso, – pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti -, ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo 'ostativo' (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di 'pericolosità sociale' del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”.
Il commento
Sul tema è arrivato anche il commento della Comunità Papa Giovanni XXIII (la quale gestisce 6 Cec, le Comunità educanti con i carcerati) che, come spiegato dal presidente Giovanni Paolo Ramonda, ritiene il pronunciamento della Corte come “una grande svolta che riconosce il valore di quanti, come noi, lavorano per la rieducazione dei detenuti come sancito all'art. 27 della nostra Costituzione. Finalmente oggi si dice che la pericolosità è relativa: una persona condannata, che giustamente deve pagare per i suoi delitti, può riscattarsi e cambiare vita”. Fino a ieri, spiega il presidente, “l'ergastolo ostativo il 'fine pena mai', significava negare alla persona ogni speranza. – continua Ramonda -. Oggi invece possiamo affermare che è giusto dare un'opportunità alla persone di riparare al danno commesso e di cambiare vita. La vera giustizia non consiste nella vendetta”.