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“Italia in svendita: così muore l'economia nazionale”

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“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello”. L’invettiva che Dante rivolge all’Italia nel sesto canto del Purgatorio sembra oggi riecheggiare nel libro-denuncia “L’Italia non è più italiana” (ed. Mondadori, 2019), scritto da Mario Giordano, giornalista e scrittore, celebre volto di Mediaset, di cui dal maggio scorso è direttore delle Strategie e dello Sviluppo dell’Informazione. Quella di oggi non è più l’Italia del Sommo Poeta, dilaniata da guerre intestine e dall’invasione di eserciti stranieri, eppure il Belpaese è ancora oggi l’oggetto di brame, non più di imperi ma di multinazionali. Giordano scrive che “ogni 48 ore un’azienda italiana cade in mani straniere”: dalla moda al cibo, dai settori strategici alle banche, è lungo l’elenco di vanti del Made in Italy che ora non sono più nostri. E “i nuovi proprietari stranieri non sono quasi mai dei padroni, piuttosto dei predoni”, scrive laconico Giordano. In Terris lo ha intervistato.

C’è una congiuntura economica e politica particolare che ha provocato questo stillicidio di aziende italiane finite in mano straniere?
“Certo, ha influito la debolezza dell’Italia, il difficile passaggio alla seconda o terza generazione di imprenditori. Ma soprattutto la mancanza di leggi e strumenti in grado di aiutare le aziende italiane a superare le difficoltà, magari aggregandosi come è successo all’estero. Basti pensare a quanto accaduto nella moda: Italia e Francia erano alla pari. Poi in Francia sono nati due grandi gruppi (Kering e Lvhm), in Italia no. Loro sono diventati predatori, noi preda…”.

Il passaggio di un’azienda agli stranieri, in genere, che conseguenze comporta per i lavoratori?
“Il legame di un’azienda straniera con il territorio italiano è inevitabilmente meno forte. Quindi succede spesso che, una volta conquistato il simbolo italiano, le produzioni vengano spostate altrove, dove è più conveniente, come è successo nell’ultimo caso salito alla ribalta dell’attenzione pubblica, cioè quello della Pernigotti, con conseguente chiusura di stabilimenti e lavoratori disoccupati. Ma di casi del genere purtroppo ce ne sono molti, come racconto nel mio libro. Il sistema del ‘prendi il marchio e scappa’ è assai diffuso…”.

Un capitolo del suo libro affronta la questione delle banche popolari…
“La riforma voluta nel 2015 dal governo Renzi (che trasforma in spa le popolari con un attivo superiore agli 8miliardi di euro, ndr) ha finito per mettere in ginocchio quello che era sempre stato un antico e solido tesoro dei nostri territori, favorendo così speculatori esteri. Lo denuncia da tempo – purtroppo inascoltato – il presidente dell’Associazione nazionale fra le Banca Popolari, l’avvocato Corrado Sforza Fogliani: ‘Chi comanda quest’Europa vuole divorarsi le piccole aziende italiane – ha detto -. Per farlo il primo passaggio è colpire le banche di territorio, cioè quelle che aiutano le piccole e medie imprese”. Obiettivo centrato, si direbbe”.

Gli organi d’informazione italiani sembrano essersi accorti tardi di questo assalto alle aziende nostrane. A suo avviso a cosa è dovuto?
“Perché gli organi d’informazione italiani sono naturalmente attratti dal racconto delle polemiche day by day e faticano a vedere le grandi trasformazioni, le tendenze di fondo. Per interpretare e leggere le quali servono, per l’appunto, i libri”.

Un discorso a parte meritano i cosiddetti “gioielli di famiglia”, aziende partecipate dallo Stato come Leonardo-Finmeccanica, Eni, Enel, ma anche le concessionarie di acqua, luce e gas che gestiscono le amministrazioni locali. Anche in questi campi c’è il rischio svendita agli stranieri, magari per sanare il nostro debito..?
“Più che altro vedo il rischio di perdere il controllo dei nostri settori strategici. Già non possediamo più la siderurgia, la chimica, le telecomunicazioni. Anche i servizi segreti si sono allarmati e hanno segnalato il pericolo nella loro relazione al Parlamento. Non mi sento tanto tranquillo se il rubinetto del nostro gas, per esempio, viene azionato, come già accade, dal responsabile di una società che sta a Praga…”.

Questa invasione straniera nel Made in Italy incide anche sui costumi: nel suo libro parla di come stanno cambiando le nostre abitudini alimentari e il nostro linguaggio…
“La nostra resa non è solo economica, è culturale. Basta vedere come cambia la lingua, a cominciare dalle stesse leggi (Jobs Act, Flat Tax, Spending Review…) che vengono espresse sempre più in inglese. Sfioriamo il ridicolo nell’uso di termini anglofoni e nel libro mi diverto assai a sfottere questa nostra abitudine. Ancor più grave quello che succede in campo alimentare: distruggiamo i nostri agrumeti per importare arance dal Marocco, abbandoniamo le coltivazioni di pomodori e li importiamo dall’Egitto, e lo stesso succede per le olive, il riso, etc. Non sappiamo difendere i nostri patrimoni gastronomici, ci siamo lasciati invadere da cibi che per altro sono pure assai meno sicuri dei nostri”.

Cosa è necessario fare per fermare questa predazione degli stranieri?
“Ovviamente ci vogliono norme specifiche. All’estero ci sono. Penso alla legge Toubon in Francia per la difesa della lingua e della cultura, penso al fondo strategico che sta nascendo in Germania per difendere le aziende più importanti… Ma per arrivare a tutto questo bisogna imparare ad amare il nostro Paese, a difenderlo, cominciando magari dalle piccole cose, dalla riscoperta della ricetta della nonna, dall’amore per la lingua, etc”.

Ed è facile farlo?
“No, tutt’altro. È difficile in un Paese dove un parlamentare della Repubblica si mostra in pubblico con un cartello che dice: ‘Dio patria famiglia che vita de m….’”.

Federico Cenci: