Un buon giornale, suppongo, è una nazione che parla a se stessa” sosteneva lo scrittore americano Arthur Miller. Ma cosa succede quando questa comunicazione s'interrompe? Da decenni se lo stanno chiedendo studiosi del settore alle prese con la drammatica crisi dell'editoria. Crollano le copie vendute, calano gli introiti, le redazioni subiscono drastici tagli e accorpamenti. A pagarne il prezzo è il diritto, costituzionalmente sancito, dell'opinione pubblica a essere informata. Ma anche quello di professionisti esemplari e giovane leve, che si confrontano a cadenza quotidiana con un mondo nel quale precarietà e disoccupazione la fanno da padrone. Ne abbiamo parlato con Pierangelo Maurizio, cronista, scrittore e saggista ma anche segretario di “Lettera 22“, associazione di giornalisti dediti, fra le altre cose, a “sostenere l'informazione libera e non omologata”.
Nei giorni scorsi è stata chiusa la redazione romana del Giornale. In passato anche Sky e Libero, fra gli altri, hanno adottato misure simili in un'ottica di riduzione dei costi. Quanto ci perde l'informazione?
“Molto. Ci perde anche Roma e ci perdiamo noi tutti. Siamo dentro un fenomeno di diverse dimensioni. Se pensiamo, ad esempio, all'azzeramento dell'informazione locale, avvenuta negli ultimi anni, l'immagine che viene in mente è quella di un deserto. Mancanza di voce ai cittadini, di rappresentanza. Un deficit di cultura e di conoscenza. E' una perdita grande, continua…”.
Durante gli Stati generali dell'editoria il premier Giuseppe Conte ha annunciato la presentazione di una riforma del settore a settembre. Quali misure bisogna adottare?
“Dobbiamo metterci in testa che servono interventi d'urto ad ampio spettro, a cominciare da una legge di sistema che dichiari la crisi del settore. Sono anche necessarie misure che coinvolgano governo e parlamento. Negli ultimi anni, oltre a un peggioramento delle nostre testate giornalistiche, si è verificato un fenomeno molto particolare: dall'informazione non ci guadagna più chi la produce, ma chi la veicola: cioè i big di internet. Faccio un esempio: è come se dalla vendita di automobili ci guadagnasse la società Autostrade piuttosto che la Fiat. E' una stortura su cui bisogna intervenire”.
Il ministro Di Maio, tempo fa, è tornato a parlare di editori “puri”. Possono funzionare?
“E' una proposta ricorrente. Se ne parlava già una quarantina di anni fa, quando ho iniziato. In Italia abbiamo Cairo che appartiene a questa categoria, il quale riesce a ottenere margini di guadagni dalle sue imprese editoriali. Personalmente credo che i risultati da conseguire siano altri….”
Quale?
“Trasparenza delle proprietà editoriali e maggiore qualità dell'informazione. Quelli sì che andrebbero imposti per legge”.
Anche perché non mancano gruppi bancari che entrano nei cda delle aziende editoriali a fronte di operazioni di salvataggio…Ciò non rischia di pregiudicare la libertà d'informazione?
“Non ci sono dubbi in proposito. Siamo alle prese con un processo storico, iniziato alla fine degli anni 80, che ha portato a un rafforzamento del potere economico-finanziario, diventando proprietario di buona parte delle testate giornalistiche. Ciò ovviamente va a detrimento sia della qualità dell'informazione, sia della trasparenza, sia dell'autonomia. Spesso questo potere ha usato i giornali come una vera e propria arma”.
Il progressivo addio alla carta stampata e la conversione al digitale può favorire il turnover nella redazioni, facendo entrare non solo i giovani ma anche nuove professionalità?
“Sul punto si tende a fare confusione. Gli strumenti cambiano ma il cuore del giornalismo resta quello: stare sul posto, toccare con mano le cose e raccontarle. Cambia poco che l'informazione viaggi verso le edicole o sul web. Il problema vero resta quello delle risorse che, come detto, vengono assorbite dai giganti di internet. Un'inchiesta del Corriere firmata da Milena Gabanelli ha spiegato che il 70% degli introiti pubblicitari che circolano sul web finisce nelle casse di queste multinazionali. E' questo il vero problema. Un problema di libertà e soprattutto di potere, ce n'è troppo che finisce in poche mani”.
Quindi il web, da nuova dimensione dell'informazione, si è trasformato nel suo carnefice…
“Paradossalmente sì. La storia della gratuità di internet si è trasformata nell'alibi per un enorme trasferimento di ricchezze. Così viene meno l'informazione per come l'abbiamo conosciuta: un pilastro della democrazia liberale”.
C'è poi il problema della disoccupazione giovanile. Il sistema universitario, tra scuole di giornalismo e facoltà come scienze della comunicazione, non rischia di creare facili illusioni?
“Ci sono due equivoci. Il primo è quello che porta a pensare di poter uscire giornalista professionista da una scuola di giornalismo. Il praticantato, che dovrebbe essere un contratto a tempo indeterminato, in queste realtà viene di fatto acquistato. Questo produce disoccupazione…”.
Come si è arrivati a questo?
“Non saprei dirlo. Di sicuro grosse responsabilità ce le hanno il sindacato e l'Ordine dei giornalisti”.
E il secondo equivoco?
E' la divisione fra generazioni, alimentata dagli editori e in parte dal sindacato. Da una parte i giovani, disoccupati o precari, dall'altra gli anziani, visti sia come usurpatori del lavoro, sia, latu aziende, come pesi morti. Questa professione, però, va salvaguardata tutelando tutti i segmenti, da chi si affaccia per la prima volta nella redazioni a chi è in uscita, passando per quanti sono a metà del loro percorso. La contrapposizione è totalmente artificiale, pone tutti i giornalisti in una situazione di ricatto, di precarietà vera. E con la precarietà non si possono garantire autonomia e indipendenza, la famosa 'schiena dritta'”.
Un altro elemento da considerare è quello dei pubblicisti. Gli ordini regionali ne sfornano a migliaia ogni anno. Anche per loro, spesso, la prospettiva è quella di un'iscrizione all'albo che non ha ripercussioni positive da un punto di vista lavorativo…
“E' una realtà che conosco poco. Ma c'è sicuramente qualcosa che non va se all'Ordine dei Giornalisti risultano iscritti più di 100mila persone. Andrebbe fatta una verifica sia sul percorso con cui si viene iscritti nel registro dei pubblicisti, sia sulle modalità di svolgimento del praticantato. Serve un lavoro d'indagine serio”.