Si fa presto a dire Made in Italy. In realtà non è facile riconoscere un prodotto frutto dei nostri territori, dell’ingegno e dell’abilità degli imprenditori e degli artigiani del Belpaese. Da quasi dieci anni la normativa a tutela del Made in Italy esiste, ma c’è ancora poca informazione. L’articolo 16 della legge 166 del 2009 obbliga l’azienda a fornire indicazioni precise sull’origine del prodotto, al fine di distinguere chi produce esclusivamente in Italia e chi compie solo l’ultima trasformazione (o lavorazione) sostanziale sulla merce o sul prodotto. È così che per “100% Made in Italy” si intende solo ciò che è stato disegnato, progettato, lavorato e confezionato interamente in Italia. Le aziende che vi si attengono possono fregiarsi dei marchi “100% Made in Italy”, “100% Italia” o “Tutto italiano”. Chi ha creato rete tra queste aziende alfiere del tricolore è il progetto “100% Made in Italy”. In Terris ha intervistato il presidente Daniele Macellari, a capo del marchio di abbigliamento Giovanna Nicolai.
Perché va tutelato il “100% Made in Italy”?
“La globalizzazione del mercato ha creato nuove sfide. A causa della crisi economica ma anche per scelte politiche, molte imprese italiane sono state spinte a delocalizzare. Paolo Capponi e Giuseppe Mazzarella, rispettivamente funzionario di Confartigianato Macerata e presidente di Confartigianato Marche, si sono fatti dapprima promotori della legge 166, poi di questo progetto che mira a valorizzare e promuovere il Made in Italy, certificando una filiera che garantisce qualità”.
In che modo valorizzate e promuovete il Made in Italy?
“Anzitutto con la divulgazione, ovvero facendo conoscere le eccellenze italiane ai consumatori e rendendo le aziende che puntano sul Made in Italy consapevoli che è possibile associarsi e far sentire la propria voce. È importante inoltre rendere nota la legge 166: non tutte le aziende sanno, ad esempio, che chi ingenera nel consumatore la falsa convinzione che il suo prodotto sia interamente italiano può incappare in sanzioni anche penali”.
Quante sono le aziende che fanno parte del vostro progetto?
“Diverse centinaia stanno aderendo in modo spontaneo. La consapevolezza sta aumentando anche grazie all’aiuto che forniscono al Made in Italy alcune Regioni: le Marche, apripista seguite a ruota da Veneto, Lombardia, Toscana, ora anche dalla Campania. E dove non arriva la burocrazia territoriale, spesso è l’azienda stessa a richiedere all’organo competente di poter usufruire del marchio ‘100% Made in Italy’”.
L’impressione che si può avere, tuttavia, è che il mercato globale premi la quantità piuttosto che la qualità…
“È un’impressione che poteva avere senso prima, ma ora non è più così. Le dinamiche del mercato stanno cambiando e all’estero se ne sono accorti. Purtroppo come italiani talvolta abbiamo una tendenza all’autolesionismo, per cui non vogliamo renderci conto che solo chi punta sulla qualità, solo chi ha una tradizione eccellente come le nostre piccole e medie aziende, è destinato ad essere valorizzato e a durare nel tempo. Per questo il Made in Italy è più ricercato fuori dai confini nazionali, lo vedo ogni volta che viaggio oltreconfine: se ci fossero maggiori tutele politiche, potremmo davvero dare slancio ai nostri cibi, alle nostre produzioni artistiche, alla nostra moda”.
Per maggiori tutele politiche cosa intende?
“Dovrebbe essere reso più fruibile l’accesso al credito per le piccole e medie imprese. I fondi europei, ad esempio, sono quasi sempre ad appannaggio solo dei grossi gruppi, perché hanno al proprio interno degli uffici che si occupano esclusivamente di questo. Ecco, una minore burocratizzazione per l’accesso ai fondi faciliterebbe non poco le imprese minori, quelle del Made in Italy. C’è poi un discorso di politica economica che andrebbe fatto: se davvero vogliamo aiutare le aziende medio-piccole, dobbiamo valorizzare l’economia reale, senza lasciare che venga inghiottita dalla grande finanza”.
Chi delocalizza, tuttavia, offre generalmente un prodotto dal prezzo più concorrenziale…
“È vero, ma avere dei prezzi alti non è affatto un aspetto negativo. Oltre al costo, va sempre considerato anche il valore del prodotto”.
Così però si taglia fuori una fetta di mercato, quella costituita da chi non può spendere molto…
“Non è del tutto vero. Anche qui è un discorso di scelte politiche. All’estero – le porto l’esempio di Harrods a Londra – si punta su centri commerciali che vendono prodotti di alta qualità. In Italia è diverso: si punta più su centri commerciali che vendono prodotti di massa, a prezzi più abbordabili ma di minore qualità. E così si desertificano i nostri centri cittadini, dove si trovano spesso i negozi delle piccole-medie imprese, a vantaggio di questi enormi catalizzatori. C’è poi da dire – per rimanere nel mio ambito, che è quello della moda – che un capo di qualità può durare 15/20 vent'anni, mentre uno della cosiddetta ‘fast fashion’ dura una stagione. Talvolta è più conveniente acquistare un capo di marchi ‘100% Made in Italy’ piuttosto che tre di minore qualità”.
“100% Made in Italy” che è un vantaggio anche per l'occupazione…
“Certamente, se esistesse una maggiore volontà politica a valorizzare i prodotti interamente italiani, si darebbe slancio al mercato del lavoro interno. E puntare sul ‘Made in Italy’ significa riconoscere la dignità del lavoro, che si condensa in salari onesti e ambienti lavorativi nei quali conta il tessuto umano. Il fatturato passa anche per l’umanità: se si fa mera finanza, si rischia di perdere questo aspetto fondamentale”.
Eppure il New York Times ha pubblicato un'inchiesta per denunciare un presunto sfruttamento delle sarte da parte di grandi griffe italiane…
“Esistono eccezioni che confermano la regola, senz'altro: ogni Paese in questo senso ha i propri scheletri nell'armadio. Ma va detto che spesso, dietro le accuse all'Italia, c'è il campanilismo di chi vuole provare a competere con noi nei campi in cui eccelliamo”.