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Cinque Stelle a un punto di svolta: cambiare o sparire

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Renzo De Felice nella sua lucida analisi del Ventennio soleva distinguere il fascismo dal mussolinismo. L’uno, il primo, era la pancia, il movimento violento d’ispirazione giacobina e socialista che cercava d’imprimere negli anni del primo dopoguerra uno status di rivoluzione permanente. L’altro, il secondo, la visione politica propedeutica all’istaurazione del regime e, insieme, il culto della personalità del futuro duce. Montanelli, da par sua, ha sostenuto più volte la tesi secondo cui “Mussolini odiava i fascisti”. Un’affermazione forte e forse anche un po’ antistorica ma che sa cogliere la differenza tra militanza e leadership politica. Trasponendo questa distinzione ai giorni nostri e alla realtà pentastellata si può dire che una cosa è Grillo, un’altra il Movimento 5 Stelle. Con una sola, grande, differenza: stavolta è il capo a incarnare lo spirito combattente mentre il partito (base compresa) manifesta, sempre più spesso, segnali di insofferenza. La crisi di identità è iniziata con le ultime elezioni Europee.

Sì, le purghe erano già iniziate e sì, alcune schegge impazzite avevano già mugugnato contro l’eccessiva onnipresenza del leader. Ma di fronte al risultato delle Politiche del 2013 (che avevano incoronato il M5S come primo partito italiano) ogni mormorio rispetto a una linea politica troppo aggressiva aveva inesorabilmente cessato di esistere. La sconfitta di maggio ha rimesso tutto in discussione, leadership compresa. Certo, è impensabile che un movimento nato sull’onda dell’antipolitica possa improvvisamente mettersi a inciuciare con i partiti tradizionali. Ma un margine di dialogo non può essere escluso, ne va la sopravvivenza stessa dell’universo a 5 Stelle. Anche perché il Pd di oggi è diverso da quello del 2013. Allora il centrosinistra si reggeva ancora sull’antiberlusconismo, ora Renzi ha saputo cogliere la disillusione di quell’elettorato dem che aveva scelto i grillini per lanciare un segnale a Bersani e co. Non è un caso che Grillo veda nel premier il suo rivale naturale.

Dopo le Europee molte cose sono cambiate. Una su tutte: una maggiore partecipazione, anche televisiva, degli altri volti del M5S. Da Di Maio a Di Battista, passando per Fico e Lombardi le richieste di avere più spazio sono state accolte, sia pure ob torto collo. E non è un caso che la scorsa estate al vertice con il premier Renzi sulle riforme Grillo abbia lasciato campo libero alle sue creature. Una scelta doverosa se si vuole dare al Movimento una connotazione politica diversa rispetto a quella di partito di battaglia e basta, senza alcuna spinta propositiva. Anche perché l’elettorato non può continuare a dare fiducia a chi, per vocazione, ha solo la missione di distruggere. Il rischio è fare la fine dell’Italia dei Valori, il vero antenato dei grillini.

L’obbiettivo resta lo stesso: governare; Grillo lo ha ribadito anche nell’ultima conferenza alla sala stampa Estera a Roma. Ma per farlo non si può aspettare in eterno “che passi il cadavere” della politica tradizionale. Occorre rendere più chiara la propria proposta, farla apprezzare dagli italiani. Il M5S, infatti, nella sua rispettabile scelta di non partecipare a coalizioni parte svantaggiato in confronto agli altri schieramenti. Per raggiungere un risultato sufficiente per guidare il Paese da soli i grillini dovranno correre più degli altri e mostrarsi con un volto diverso: quello di una forza giovane che sa interpretare il cambiamento in modo lucido, smettendo i panni dei Savonarola di turno.

Luca La Mantia: