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Borrometi: “La mia vita da reporter sotto scorta”

Avolte mi presentano come una sorta di eroe civile. Ecco, io non lo sono. Sono semplicemente un ragazzo che difende il sogno di fare il giornalista e cerca di essere utile alla Sicilia, la sua terra”. Paolo Borrometi tiene a precisarlo al termine della lunga intervista concessa a In Terris. Modicano, 35 anni, da 5 vive sotto scorta dopo ripetute minacce e un'aggressione da parte della mafia. Un reporter scomodo (“ma un giornalista non può essere altrimenti” spiega) che con le sue inchieste ha fatto luce sulle zone d'ombra nelle quali clan e politica (la malapolitica) s'incontrano, si strizzano l'occhio, fanno affari. Il programma di protezione personale ha limitato la sua libertà di movimento. Ha compensato continuando a scrivere, condensando il suo pensiero, il suo lavoro, in articoli e libri. Nell'ultimo (“Un morto ogni tanto” ed. Solferino) racconta la sua battaglia contro la “mafia invisibile”. E' editorialista del Tempo, di Libera Informazione e di Articolo 21, di cui è anche presidente dal 2017. Il presidente Mattarella, nel 2015, lo ha nominato Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana

Come si vive sotto scorta a 35 anni?
“E' una vita drammatica, specie per chi, come me, prova imbarazzo e vergogna a trovarsi in questa condizione. Ti porta a perdere la quotidianità. Da 5 anni non vado al mare nella mia Sicilia, al cinema, a un concerto o allo stadio per una partita. Per non parlare del lato affettivo: trovare una donna per costruirsi una famiglia è difficile nella mia situazione”.

Ne è valsa la pena?
“Sì, perché la mia coscienza è pulita. So di aver perso una parte della mia libertà fisica, ma quella di pensiero, la più importante, resta integra. Quando mi guardo allo specchio, dopo notti difficili trascorse lontano dai miei familiari, mi sento a posto: so di aver fatto solo il mio dovere”. 

Al programma di protezione personale come si è arrivati?
“Attraverso vari passaggi. Prima ci sono state le minacce: lettere e telefonate anonime, danni alla mia automobile, scritte intimidatorie sull'androne di casa. Poi è arrivata l'aggressione fisica. Nella primavera del 2014 mi ruppero la spalla in 3 parti, dicendomi che non mi ero fatto gli affari miei e che sarebbe stato solo l'inizio. Era vero. Una notte di quattro mesi dopo provarono a incendiare la casa dei miei genitori, dove mi trovavo. Di lì a poco mi chiamarono il questore e il comandante dei Carabinieri per dirmi che la mia vita era in grave pericolo e dovevo vivere sotto scorta”.

Come la prendesti?
“Lì per lì non capii. Ero ancora scosso per quanto era avvenuto. Da allora è iniziata la strana vita che conduco oggi”.

Cosa pensi di chi polemizza sulle scorte?
“Gli farei fare 24 ore della mia vita. Io non ho mai chiesto di essere protetto e non vedo l'ora che arrivi il giorno in cui gli inquirenti mi chiameranno per dirmi che non sono più in pericolo. Vorrei poter essere libero di andare al bar a prendere un caffè e non dover contare i pacchetti di sigarette che ho in casa. Spesso mi trovo a scendere dall'automobile della scorta col volto basso, per evitare lo sguardo della gente che potrebbe giudicarmi un privilegiato. Non è così: è un dramma, anche se necessario”.

Ti ha già salvato la vita? 
“In almeno due circostanze. Alcune intercettazioni della procura di Catania provano l'esistenza di un piano dettagliato per uccidermi con un'autobomba, non potendo spararmi a causa della scorta. Ecco, se non fossi protetto, oggi probabilmente sarei morto”. 

Un'autobomba, come quella che ha ucciso la reporter d'inchiesta maltese Daphne Caruana Galizia…
“Era una mia amica, avevamo un intenso rapporto epistolare e anni fa aveva ripreso una mia inchiesta”.

Cosa hai provato quando hai saputo della sua morte?
“Ho avuto un senso di scoramento, di perdita umana, per una persona cara che aveva un'opinione altissima del giornalismo. Lo scorso 10 aprile, quando si è scoperto un piano per uccidermi ho pensato a lei e al fatto che sarei potuto morire nello stesso modo. Associare un fatto del genere alla propria persona produce sensazioni drammatiche che non si possono descrivere”. 

Perché i giornalisti sono nel mirino delle mafie?
“Perché portano alla luce affari che dovrebbero avvenire nell'ombra. Attenzione però: non ci ammazzano perché scriviamo, ma perché veniamo letti. Il centro di tutto è il lettore. Del resto il cuore dell'articolo 21 della Costituzione non è il diritto del giornalista a informare ma quello dell'opinione pubblica a essere informata. E' un cambio di prospettiva fondamentale se vogliamo inquadrare il problema. Vicende come quella di Daphne ci insegnano proprio questo”. 

La precarietà pervasiva che interessa il settore stampa da anni è un ulteriore elemento di vulnerabilità per chi vuole fare il proprio lavoro in modo intellettualmente onesto…
“Assolutamente sì. Il precariato è uno dei grandi problemi della nostra professione, mina la libertà del giornalista. La classe politica spesso ci attacca, ci insulta o pretende tanto da noi, ma deve metterci nelle condizioni di fare il nostro lavoro. Quando venni aggredito scrivevo per 3 euro e 10 lordi ad articolo e quando chiedevo ai colleghi di fare squadra mi rispondevano: 'Paolo, ma possiamo rischiare la vita per così poco?'.

Fino a quando ti sei trovato in queste condizioni?
“Sono stato precario sino all'anno scorso e l'unica testata a mostrarmi solidarietà nei fatti è stata Tv2000, che non finirò mai di ringraziare. Mi hanno consentito di fare il mio lavoro con quel minimo indispensabile di sicurezza psicologica e strutturale”. 

E' anche vero che il settore è in crisi. Negli ultimi tempi, poi, si è tornato a parlare di abolizione dei finanziamenti pubblici all'editoria…
“Qualcuno pensa che tagliando i fondi all'editoria si colpiscano i grandi giornali che magari sono stati fortemente critici nei confronti del governo di turno. Non è così: a essere penalizzate sarà soprattutto l'informazione che fa opinione veramente. Penso al Manifesto e ad Avvenire, quotidiani appartenenti a culture politiche profondamente diverse ma che rappresentano delle importanti voci critiche. E penso a Radio Radicale, che svolge un un prezioso servizio di racconto delle dinamiche interne ai palazzi delle istituzioni. Ma anche all'informazione locale, che è l'ossatura del giornalismo nel nostro Paese. Insomma, è una materia da maneggiare con cura, che non può essere trattata solo ricorrendo a spot elettorali”.

Torniamo alla mafia. Sulla tua Sicilia credi si sia abbassata la guardia?
“Dobbiamo essere chiari: in Sicilia due degli ultimi 4 governatori sono stati condannati per reati di mafia. Parlo di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, anche se quest'ultimo non in via definitiva. Ed è la stessa regione dove, invece, un grande presidente come Piersanti Mattarella è stato ammazzato da Cosa Nostra. Si è pensato che con la reazione dello Stato successiva alla stagione delle stragi il fenomeno fosse stato sconfitto. Purtroppo non è così. La mafia continua a fare affari con la politica e alcuni politici continuano a rivolgersi alla mafia. E' un problema culturale che va risolto una volta per tutte: la classe dirigente deve essere credibile, dicendo no come precondizione alle zone grigie. Durante i funerali di Piersanti Mattarella, il cardinale Pappalardo, nell'omelia, disse che in Sicilia bisognava schierarsi. Finita quella fase, però, la gente e la politica hanno smesso di prendere posizione pubblicamente sul fenomeno, non solo a parole ma nei fatti”.

Quindi non vedi una reale volontà politica di sconfiggere il crimine organizzato?
“Sulle mafie si ragiona solo in termini di emergenza. Se ne torna a parlare e si agisce solo quando ci scappa il morto come spiego nel libro 'Un morto ogni tanto'. Il fenomeno, invece, si manifesta nella vita di tutti i giorni. Ma su questo aspetto, almeno da un decennio, vedo tanta approssimazione da parte di chi ci governa”. 

Hai ricordato la stagione delle stragi. Una vittima illustre di quella fase, Giovanni Falcone, diceva che bisogna saper convivere con la paura senza lasciarsi condizionare. Tu come ti confronti con questo stato d'animo?
“Io ho paura ogni giorno. Ne ho quando mi arrivano nuove minacce, se qualcuno si avvicina alla spalla che mi hanno rotto e se un'automobile mi si accosta. Ma è uno stato d'animo con cui ho imparato a convivere senza esserne ostaggio. Avere paura non mi ha mai impedito di pubblicare un articolo”. 

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