Non un killer ma “un uomo animato da un movente ideologico”. Così ha definito se stesso Cesare Battisti, parlando davanti al pm di Milano, Alberto Nobili, durante l'interrogatorio di due giorni fa a Oristano, lo stesso in cui aveva ammesso le sue responsabilità nei quattro omicidi (due commessi materialmente) per i quali è stato condannato. Nel documento stilato al termine dell'interrogatorio, vengono riportate le parole con le quali Battisti spiega le sue azioni: “Voglio precisare che lei mi ha parlato di freddezza che sembrerebbe che io abbia manifestato nei casi in cui ho sparato. In merito, intendo evidenziare che io non sono un killer ma sono stato una persona che ha creduto in quell'epoca nelle cose che abbiamo fatto e quindi la mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce, quando credi in una cosa, sei deciso e determinato. A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio ma all'epoca era così”.
L'evasione
E rivela ulteriori dettagli l'ex Pac, parla di se e della sua vita dopo l'evasione dal carcere di Frosinone, nel 1981, della quale svela la dinamica e le motivazioni, affermando che avvenne “grazie all'aiuto di appartenenti a gruppi armati di differente collocazione nel mondo della lotta armata in quanto ritenevano che io avrei potuto incontrare alcuni elementi e portare un messaggio che poi sarebbe stato finalizzato a cessare l'attacco armato nei confronti dello Stato ma a mantenere la disponibilità delle armi per scopi difensivi e ad aiutare compagni ad evadere”. E parla anche degli omicidi, a cominciare da quello di Andrea Campagna: “Ho partecipato sparando… l'indicazione è stata data dal collettivo di zona Sud, in quanto era ritenuto uno dei principali responsabili di una retata di compagni del collettivo Barona che erano poi stati torturati in caserma. Lui conosceva bene i soggetti del collettivo Barona in quanto il 'suocero' abitava in quella zona. Per lui fu decisa la morte nel corso di una riunione dei Pac e mi sono reso disponibile all'azione”. Battisti spiega che già in quel periodo “covavo l'idea della dissociazione e non a caso, pochi mesi dopo, circa due, decisi di abbandonare tutto e tutti e di rifugiarmi in Francia”.
Gli omicidi del 16 febbraio '79
Per quanto riguarda l'assassinio di Lino Sabbadin e Pierluigi Torregiani, avvenuti lo stesso giorno, Battisti spiega di essere stato fra i sostenitori della linea del ferimento, non dell'omicidio: “Ci tengo in particolare a questa precisazione che non cambia nulla circa la mia posizione perché per anni sono stato 'massacrato' dalla stampa e dall'opinione pubblica quale principale responsabile della morte di Torregiani e Sabbadin. C'erano state discussioni accese sulla morte di Sabbadin e Torregiani ma alla fine era prevalsa la linea che io, insieme ad altri, avevamo sostenuto, ovvero ferire e non uccidere”. Entrambi, invece, furono uccisi. Il figlio del gioielliere, Alberto (allora quindicenne), venne inoltre ferito alla colonna vertebrale perdendo l'uso delle gambe.