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Ayala su Borsellino: il ricordo dell'uomo e del magistrato

Il 19 luglio non potrà mai essere un giorno come gli altri per l'Italia e gli italiani. È la data, in cui nel 1992, si consumò la strage di via D'Amelio, a Palermo. La domenica nella quale persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Li Muli e Claudio Traina. A distanza di 57 giorni da Capaci, Cosa nostra tornava a colpire nella maniera più atroce chi rappresentava lo Stato. Quello stesso Stato che non si accorse dell'enorme falla di sicurezza nel sistema che avrebbe dovuto tutelare Borsellino: mancava la zona di rimozione davanti l'abitazione della madre del magistrato, dove appunto si recava ogni domenica. A 27 anni esatti dalla tragedia, In Terris ha intervistato uno dei protagonisti che ha segnato la stagione della lotta alla mafia: Giuseppe Ayala, pm del maxiprocesso. Ma soprattutto collega ed amico di Borsellino. Aneddoti, analisi della criminalità organizzata e della normativa, i recenti arresti a Passo di Rigano sono solo alcuni degli argomenti trattati.

Dottore Giuseppe Ayala partiamo dall’attualità: le rivelazioni della Commissione Antimafia hanno messo in luce le gravi carenze di sicurezza nei confronti di Borsellino e la strutturale mancanza di organico e strumenti nella magistratura. 
“Come spesso gli è capitato nella vita, con le sue parole, Paolo Borsellino ha fotografato la situazione del 1984. Aveva perfettamente ragione. Lui si lamentava per quel computer che non funzionava, devo dire però che un bel po’ dopo, rispetto all'audio pubblicato qualche giorno fa, le cose sono migliorate sia dal punto di vista della tutela della nostra sicurezza sia sotto il profilo tecnologico di allora. Che è stato fondamentale durante il maxiprocesso, senza il quale sarebbe stato irrealizzabile”.

Quali sono i suoi ricordi personali legati alla sua amicizia con Paolo Borsellino?
“Deve sapere che almeno una volta a settimana c’era di pomeriggio una riunione del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto. A questa riunione, in qualità di pubblico ministero, partecipavo anch’io. Entravamo tutti in questa grande stanza con il tavolo al centro, e poi quando non mancava più nessuno il segretario andava a chiamare Caponnetto. Se entrava nella stanza e si accorgeva che Paolo era seduto accanto a me diceva: 'Ayala e Borsellino mettetevi alle parti opposte del tavolo sennò oggi non si lavora'. Perché Paolo era dotato, e mi fa una tenerezza infinita ricordarlo, di una forza ironica che è difficile descrivere. Insomma quando eravamo insieme ridevano tutti, come avviene a scuola. Diciamo che rispetto a me e Falcone, con il quale condividevo cene e vacanze, Borsellino faceva una vita molto più familiare e casalinga”. 

Lei è stato uno dei pm del maxiporcesso a Cosa nostra, qual è il lascito di quel procedimento e come è cambiata la mafia da allora?
“Come ha detto lei ero un pubblico ministero del procedimento che all’epoca era una delle novità introdotte. I giudici istruttori giustamente pensavano di avere un pm di riferimento, in modo tale che al dibattimento fosse messo nelle migliori condizioni per sostenere il lavoro istruttorio. Il risultato del maxiprocesso è stato straordinario perché per la prima volta si ottenne la condanna all’ergastolo di boss come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò e altre 16 persone. Allora era impensabile, e gli stessi imputati con i quali abbiamo convissuto nella stessa aula per quasi due anni, rimasero increduli. Non gli sembrava possibile che quel processo venisse celebrato. Ecco perché lo definisco il punto di non ritorno nel confronto tra lo Stato e questa tremenda organizzazione criminale. Ai colleghi che sono venuti dopo ha lasciato un patrimonio di conoscenza del fenomeno mafioso, che quando quello straordinario gruppo di giudici istruttori iniziò a lavorare insieme, non c’era. Ed è stato sfruttato con grande capacità, ottenendo risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Voglio però aggiungere una cosa”. 

Prego.
“Va precisato che Cosa nostra non è stata sconfitta. Infatti pochi giorni fa sono stati fatti degli arresti molto importanti che riguardano la storica famiglia degli Inzerillo. Rispetto al passato la mafia è stata senza dubbio indebolita, ma guai a sottovalutarla. Usando un paragone medico: non è in rianimazione intubata, però è ricoverata in corsia per accertamenti”.

Ha visto il film Il traditore? Se sì, le è piaciuto?
“Deve sapere che ero un po’ perplesso sul recarmi al cinema perché immaginavo che non sarebbe stato semplice rivivere quegli anni: per me è un impegno emotivo. Poi alla fine spinto da moglie e amici sono andato. Mi è piaciuto molto: la regia è ottima, d’altronde Marco Bellocchio ci ha abituato bene. Straordinaria l’interpretazione di Pierfrancesco Favino. Ho rivisto Buscetta nel modo di gesticolare, e per quanto riguarda il dialetto, un siciliano che non sentiamo spesso al cinema. Bravissimo anche Luigi Lo Cascio. Tra l'altro le rivelo che con Bellocchio abbiamo avuto lunghi colloqui, dove mi ha fatto un sacco di domande. Merita tanti complimenti”.

Ritiene adeguata l'attuale normativa sulla lotta alla mafia?
“Sì assolutamente. Occorre fare una riflessione a proposito dei progressi che nel corso del tempo questa normativa ha fatto. Teniamo ben presente, che sino al 29 settembre 1982 nel codice penale italiano, la parola mafia non c'era. Fu la legge Rognoni-La Torre, approvata dopo l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che introdusse il famoso 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Quando Falcone era Direttore degli affari penali al Ministero di Grazia e Giustizia me ne occupai anch'io. In particolare del 41 bis, il cui scopo non è rendere più afflittivo il regime carcerario a carico dei mafiosi. Ma cercare di impedire la loro comunicazione con l’esterno. Pensi che nei primi anni 80, da pubblico ministero ho ottenuto la condanna di Gerlando Alberti come mandante di un omicidio, quando era detenuto. Dunque il 41 bis ha colmato una lacuna enorme del nostro sistema, perché i criminali anche da reclusi continuavano a gestire i loro traffici”. 

Quale consiglio si sente di dare ai giovani magistrati che iniziano la carriera?
“In primis scegliere questo mestiere per passione. Devono rendersi conto al più presto della delicatezza del loro ruolo: il riferimento per tutti i cittadini che chiedono il ristabilimento della legalità. Legalità con la quale si misura il livello raggiunto da un regime democratico. Un compito essenziale, per cui suggerisco ai giovani di credere molto in questo lavoro, senza risparmiarsi”.

Tralasciando le vicende processuali, da cittadino ritiene che la celebre agenda rossa di Borsellino verrà mai ritrovata?
“Tutto parte da un filmato che ritrae un ufficiale dei carabinieri che sta portando via la borsa che la conteneva. Da quel momento sono passati 27 anni. Il ritrovamento, secondo me, è abbastanza improbabile”.

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