La chiave di lettura del testo è la spietata e avvincente interpretazione del precario equilibrio che milioni di persone tentano di mantenere tra le ore dedicate al lavoro e quelle da spendere in ciò che resta del mondo, dopo il lavoro. Nel leggere un uomo di industria che scrive libri il pensiero vola al modello altissimo di Paolo Volponi, dirigente dell’Olivetti e romanziere di successo. Nelle 215 dense pagine di “Correndo con il diavolo” (Aldenia edizioni), Andrea Famiglietti descrive, come recita il sottotitolo, le “anime in saldo al mercato del lavoro”. L’autore trae dall’esperienza personale nel mondo dell’impresa lo sguardo tagliente che gli consente di ritagliare folgoranti quadretti di routine lavorativa come questi: “Le regole mi consentivano di timbrare entro le 09.30 ed uscire dalle 18.30 in poi. Il mio status di pendolare non era sufficiente perché i colleghi perdonassero i miei ingressi regolarmente posticipati di circa mezz’ora rispetto ai loro. Una volta lì dentro, l’asticella del dovere veniva posta alle 19.00, senza la sicurezza di essere in grado di giungervi privo di contraccolpi. Le dinamiche della giornata facevano sì che la certezza dell’ingresso corrispondesse all'incertezza dell’uscita. Ogni mattina cercavo sempre di non mettere nello zaino sensi di colpa inutili”. E ancora: “i sindacalisti entravano nel nostro ufficio senza quasi mai bussare, con la faccia sorniona e lo sguardo interlocutorio. Come accade spesso a chi crede ciecamente nel proprio ruolo e nei propri valori, potevano inciampare in reazioni permalose ed era spesso necessario sospendere tutto e disporre le loro richieste sul primo gradino delle priorità. Raccoglievano bisogni e capricci dei propri tesserati, contendendosi le iscrizioni con promesse e strizzate d’occhio, ispirando i propri obiettivi al miracolo dei i pani e dei pesci, moltiplicati magicamente da quei demiurghi metalmeccanici, capaci di trasformare le sofferenze della gente in richieste e pretese di varia attendibilità, fluttuanti come una barca a vela tra le sponde di un fiume largo quanto la speranza degli operai e lungo come la linea di montaggio”.
Aziende pubbliche e private
Con automatismi comportamentali di pavloviana prevedibilità: “Allestivo sempre, in pochi secondi, un sorriso plasticato, già sofferente per quelle mattine di tedio e nebbia. Solitamente mi alzavo dalla sedia pronto ad accogliere qualche lamentela e a concedere di buon grado una difficile promessa di soddisfazione”. Una scrittura mai banale, impastata di autobiografismo e letture poliedriche, che procede per immagini. “Sono capitato in fabbrica perché il cinismo è l’unica benzina che ti spinge avanti quando sei a secco di progetti, verso le strade più facili e veloci, quasi mai le migliori. Ed ho scoperto che migliaia di persone si trovano lì per i miei stessi motivi, senza neanche conoscerli – scrive Famiglietti-. Le aziende pubbliche e private restano ancora oggi l’approdo più agognato. L'illusione del posto fisso, magari non lontano da casa, la necessità di lavorare per sopravvivere e definire se stessi. L’ansia disturba i risvegli giunti alle soglie di giornate spese per trovare un ruolo, per imparare un ritmo sociale riconoscibile a tutti, velocemente e nel modo migliore”. La parte migliore del libro è forse proprio quella sul vuoto motivazionale. “Entrai in azienda collocandomi subito sotto l’ala protettrice di chi mi assunse – racconta l’autore -. Per più di 10 anni riuscii a fare un po' di carriera, cercando di interessarmi ad un mestiere che richiede una pazienza così sorniona, da poter guadagnare la dignità della piena resilienza. Recitare un copione con addosso un abito troppo stretto: sai che prima o poi si strapperà. Sin dai primi mesi fui in grado di dimostrare brillantezza e potenziali sufficienti per compiere una carriera ricca di soddisfazioni. Dopo le 17.30, svalicavo la frontiera biologica al di là della quale il lavoro assume i contorni della missione e la calma ritrovata di una fabbrica che inizia a svuotarsi s’impadroniva di me, ad ogni respiro. Entrava nelle vene e sedava il prurito dei dubbi che rendevano incerte le decisioni della giornata”.
Senza giustificazioni consolatorie
Riflessioni filosofiche e squarci di verismo si alternano nell’intercalare avvincente dei pensieri messi nero su bianco. “Cos’è un uomo al netto della necessità? Cosa sceglierebbe, cosa penserebbe?- si chiede Famiglietti-. Oltre il lavoro c’è la risposta stanca delle ore rimaste alla vita cosciente. L’unica forma di libertà concreta è la rendita vitalizia, ereditata oppure conquistata con il lavoro o con la fortuna. La liberazione dalla necessità, la fortuna di pochi, a cui molti guardano come il più grande dei trionfi e la più preziosa delle sorti. Vorrei bene conoscere me stesso, dimostrare a Socrate la mia volontà filosofica, ma mi occorrono molti soldi, che non ho”. Secondo l’autore, l’azienda è un luogo dove si accorda fiducia a sconosciuti molto competenti e il bisogno li costringe al compromesso. Figli del ceto medio, che “corrono come tartarughe marine appena partorite, sulla spiaggia di un’università statale, verso il mare che li inghiotte dentro un altro mondo, quello del lavoro, che poi è sempre lo stesso, soltanto complicato dal dovere di contribuire al progresso, in una qualche maniera evidente a tutti”. Per reggere oltre le dieci ore di lavoro non servono talenti, ma mancanze. “L’etica del lavoro, l’accettazione del sacrificio, l’abitudine allo sforzo e alla soddisfazione ansiolitica di un dovere ben compiuto sono un’acquisizione che procede da lontano, una leva del carattere allenata sin da piccolino, quando in famiglia capisci che bisogna saper rinunciare a ciò che altri vantano come attributo naturale, quando in classe realizzi che le bambine preferiscono giocare con altri bambini e non con te”, snocciola meditazioni Famiglietti come grani di un sofferto e personalissimo rosario. Sofferenze incubate per qualche anno, “fino alla palese manifestazione brufolosa dell’adolescenza, che affida alla natura il compito di dividere i volti più dolci e gradevoli da quelli più arcigni e spigolosi. Così viene compromesso quel particolare tipo di serenità che abita alcune case, nelle quali la matematica può diventare un’opinione fumosa, ma il gusto per le belle cose e per il buon cibo, mai. Allora, se non abiti in quella casa, una rabbia grezza cova e cresce, ma viene raffinata e sdoganata come ambizione dai buoni valori che, tra un salto in chiesa ed una carezza materna, carica di pena e speranza, entrano attraverso tutti i sensi del corpo per non lasciarti più”. Una prosa vissuta e introiettata che svela progressivamente il talento di chi sa rendere universale il particolare. E alla fine del libro ci si sente un po' tutti anime in saldo al mercato del lavoro. Solo che Andrea Famiglietti ha il coraggio a tratti crudele ma sempre onesto di raffigurarci per ciò che realmente siamo al di là delle giustificazioni consolatorie. La narrativa italiana ha trovato uno scrittore esordiente che potrebbe riservare altre preziose sorprese.