La guerra del domani che rischia di innescare quella dell’oggi

Foto di hosny salah da Pixabay

È la guerra dei paradossi: prima lasciata allo stato gassoso, perché nessuno ha sparato un colpo come rappresaglia per le uccisioni reciproche ancora lasciate senza vendetta, poi lanciata come prevenzione delle possibili rappresaglie future. In altre parole: si salta al domani per non dover affrontare l’oggi. Il tempo, nelle culture mediorientali, è più che mai concetto di dimensione interiore, ma qui siamo l’inimmaginabile. Abbiamo, cioè, due parti che per non dover combattere uno scontro che evidentemente vogliono entrambi ben poco passano direttamente allo scontro successivo. Roba da mille e una notte.

Purtroppo esiste però anche il tempo, diciamo così, spazializzato: quello caro a noi occidentali, e dopo un’ora ne viene un’altra, dopo un giorno l’indomani. Non si sfugge, e probabilmente non si sfuggirà nemmeno questa volta all’inesorabile accavallarsi cronologico degli eventi. Sicché la guerra del domani, ineluttabilmente, rischia di innescare quella dell’oggi, e allora tutte le sottili distinzioni diplomatico-filosofiche che hanno retto in queste ore una pace sempre più fragile e sempre più negata varranno per quel che sono: inutili escamotage. Prepariamoci, il futuro non promette nulla di buono tra Hamas, Israele e Iran.

L’unica soluzione resta quella dei negoziati del Cairo: sempre più difficili, sempre più complessi. Spes contra spem, bisogna andare avanti perché gli stessi – irresponsabili – protagonisti della nuova crisi mediorientale mostrano di aver capito la gravità della situazione, se persino Donald Trump sceglie le parole da anni usate da Papa Bergoglio. Siamo, dice quest’ultimo dal 2013, alla Terza Guerra Mondiale combattuta a pezzi. E Trump, che pure non pare andare particolarmente d’accordo con il Pontefice, fa sua la constatazione.

Stupisce infatti – ma si tratta solo dell’ultimo di una serie di paradossi – che nessuno abbia denunciato almeno finora i negoziati. Tutti in fondo li vogliono, anche se poi come finiranno è ancora da vedere. A volerli sono soprattutto gli americani. Biden ha trovato in essi il modo di dare uno scopo a questi ultimi mesi di solitudine, impostigli da un Partito democratico che forse ha ragione, ma forse ha peccato di cinismo. Tutti, a Washington, tengono a mente la foto storica di Clinton che spinge Rabin e Arafat l’uno tra le braccia dell’altro: fu l’apice di una presidenza altrimenti segnata dalla mediocrità. A tenere a mente quell’immagine, più di chiunque altro, è logicamente Biden, che probabilmente verrà rivalutato col tempo (è già successo a Jimmy Carter) ma per il momento ha bisogno di un innegabile successo diplomatico. Per sé, ma non solo per sé.

Una svolta di pace in Medioriente infatti risolverebbe una serie di problemi per i democratici. Primo tra tutti quello elettorale, giacché l’unica nota stonata della recente convention del partito è rappresentata dalle contestazioni di chi accusava la Casa Bianca di essere troppo algida nei confronti della causa palestinese. Prepariamoci: sta nascendo una nuova coscienza politica, negli Usa, ed è quella della sempre più numerosa comunità di origini arabe. Checché se ne dica, Biden non è un mediocre, e sa benissimo che Kamala Harris – se eletta – non potrà esimersi dal fare i conti con questa constituency. Che, tra l’altro, farà comodo avere dalla propria parte il 5 novembre: non si sa mai.
Ecco allora che una guerra che non rispetta la scansione razionale del tempo potrebbe essere risolta a migliaia di miglia di distanza. Del resto anche lo spazio, abbiamo scoperto con la fisica, non è una mera dimensione quantificabile. È proprio come il tempo: un valore che si può piegare alla volontà dei singoli. E questo gli americani lo sanno bene.