Un anno fa il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annunciava con il suo solito fare solenne ed eccentrico al tempo stesso: “Molto presto andremo su Marte”. In attesa di vedere un astronauta piantare la bandiera a stelle e strisce sul Pianeta Rosso, continua ad attirare attenzioni la Casa Bianca. Tra dazi, muri, accordi e disaccordi internazionali, Trump resta mattatore della politica internazionale e si prepara alle prossime agguerrite presidenziali che si terranno nel 2020. Eppure in pochissimi, prima del novembre 2016, avevano previsto la sua vittoria contro Hillary Clinton. In questa sparuta minoranza, la giornalista ed analista politica italiana Maria Giovanna Maglie, per quindici anni inviata Rai a New York, volto noto della tv e piglio graffiante contro quello che definisce “politically correct”. Piglio che giorni fa l'ha fatta finire al centro delle polemiche, dopo che a proposito di Greta Thunberg, icona dei Fridays for future, ha detto: “Se non fosse che è una bambina, anche un po' malata, la metterei sotto con la macchina''. La Maglie ha poi chiarito che si è trattato di “una battuta innocua”. “A Roma – ha aggiunto – si usa dire 'te metterei sotto co' la machina' quando ti sta antipatico qualcuno ma non significa che lo vuoi uccidere”. E ancora: “La bambina Greta non mi sta antipatica ma trovo terribile la strumentalizzazione di cui è oggetto, la macchina di propaganda che le sta intorno”. In Terris l’ha intervistata a proposito di Trump.
Cosa le fece pronosticare la vittoria di Trump?
“L’analisi dello stato miserevole in cui si trovavano gli Stati Uniti dopo otto anni di presidenza Obama. La ripresa era lenta, le tasse molto alte, mentre la politica sociale – in nome del ‘politically correct’ e del buonismo – aveva lasciato da parte la borghesia e alimentato un conflitto razziale facendo prendere piede in modo spropositato alle minoranze. Ne è nata una crisi d’identità che Donald Trump ha saputo comprendere”.
Come spiega che i maggiori organi d’informazione non abbiano saputo cogliere questa realtà?
“È la stessa ragione per cui molti osservatori continuano, in Italia, a ritenere Salvini una sorta di ‘accidente momentaneo’ anziché un leader profondamente sentito dal popolo italiano. Il punto è che quando arriva un leader populista, i grossi gruppi di potere si rifiutano di prenderlo in considerazione perché non è un uomo loro. E così è accaduto che negli Stati Uniti i grandi quotidiani, tutti legati al mondo democratico, non abbiano voluto accettare l’ascesa di Trump. È un problema di distacco del mondo dell’informazione dalla realtà sociale: non è un caso che le vendite di giornali siano in calo”.
Lei considera Clint Eastwood un “cantore dell’America trumpiana”. Con i suoi film il noto regista aveva intuito un malessere della società americana radicata su valori conservatori?
“Clint Eastwood è un narratore dell’America profonda, insofferente nei confronti di tutti quei fenomeni di degenerazione della società dovuti al buonismo e al ‘politically correct’: il ‘me too’, le statue di Cristoforo Colombo demolite, il femminismo trasformato in una macchietta e in un’arma contro gli uomini… Clint Eastwood ha la capacità di capire cosa davvero salva la società americana: penso a ‘Sully’, il suo film sul pilota che che tenta un ammarraggio sul fiume Hudson contravvenendo alle regole dell’assicurazione pur di salvare le vite dei passeggeri; penso ad ‘Attacco al treno’, film che racconta di quei giovani americani che hanno sventato un attentato sul treno Amsterdam-Parigi fermando a mani nude un terrorista armato. I suoi film sono un inno alla forza della società americana da preservare dagli attacchi del ‘politically correct’. Sicuramente ‘Grande Torino’ ne è la punta di diamante, perché al centro c’è Walt Kowalski, operaio in pensione di Detroit, la cui fabbrica di auto nel periodo del film (2008, ndr) era stata trasferita in Messico. Ebbene, Trump ha riportato negli Stati Uniti la produzione (Fca ha annunciato che produrrà delle Jeep in una fabbrica di Detroit abbandonata dal 2012, ndr)”.
I vari Walt Kowalski, dopo due anni di presidenza Trump, possono ritenersi soddisfatti?
“Certo che si possono dire soddisfatti. Parlavo pochi giorni fa con un mio amico italiano che vive negli Stati Uniti ed è un lavoratore medio che sta preparando la dichiarazione delle tasse: al netto dell’assicurazione sulla salute, si accinge a pagare il 12,5% dei suoi guadagni. Come si può pensare che questo non sia un elemento di sollievo per la classe lavoratrice? E da più di un anno la disoccupazione è scesa al 3%. Si registra poi il più massiccio passaggio da part-time a full-time della storia del Paese. Se poi i vari Walt Kowalski credono anche nei valori di Dio, Patria e Famiglia, non possono che ritenersi soddisfatti dell’operato di una presidenza di chiaro stampo conservatore sui temi etici”.
E le accuse per la costruzione del muro al confine con il Messico?
“Quali accuse? Quelle dei democratici, che negli anni passati hanno costruito loro stessi il muro? Ha iniziato Clinton, hanno proseguito Bush e poi anche Obama. E va ricordato che il numero di clandestini espulsi da Obama è stato enorme. Credo che sia una polemica pretestuosa. Basta essere stati una volta a Rio Grande o a Tijuana – ed io ci sono stata molte volte – per rendersi conto che da lì passano non solo i disperati in cerca di lavoro, ma anche droga, terrorismo, criminali… Non credo che Trump intenda rinunciare alla costruzione”.
Come vede le elezioni del 2020?
“Questi due anni per Trump sono stati faticosissimi, con iniziali resistenze alla sua presidenza anche interne al Partito Repubblicano. Se ce l'ha fatta finora, credo che nulla possa fargli paura. I democratici condurranno una 'guerra' spietata, ma sono spaccati al loro interno sul metodo: c'è chi vuole attaccare Trump in modo più spregiudicato, accusandolo di impeachment, e chi vuole condurre la battaglia sul campo strettamente politico”.
Nei contenuti politici e nel modo di comunicare, trova affinità tra Trump ed esponenti politici europei sovranisti?
“Sì, vedo analogie. Il sovranismo è un fenomeno mondiale che trae origine dall’esigenza profonda del popolo di riprendersi il proprio destino. Negli Stati Uniti questo sentimento è stato soffocato da un certo multilateralismo di Obama, dalla perdita di senso d’identità, mentre in Europa dall’accentramento dell’Unione europea a trazione franco-tedesca. Sia Trump sia i sovranisti europei provano a dare risposte proponendo una riaffermazione dell’identità, del controllo del proprio Paese”.
Di recente lei è stata attaccata dopo che era stato fatto il suo nome per condurre un programma su Raiuno. Nel 2016 scrisse che per stare dalla parte di Trump in America occorresse “molta resistenza al dileggio”. È così anche in Europa, per chi si definisce sovranista?
“È tutta la vita che sono controcorrente, quindi non mi stupiscono gli attacchi verso di me. Diciamo più in generale che se sei un giornalista progressista, abortista, per le unioni civili e per l’apertura dei confini, sei un giornalista ‘alla moda’ e buono. Se invece sei un giornalista contro il pregiudizio ‘politically correct’, se pensi che queste elite abbiano fallito, affidando il processo di globalizzazione soltanto al mercato, allora sei scomodo. Ma c’è un’affermazione popolare contro le manipolazioni massmediatiche. Dunque possono anche dileggiarmi, sono in buona compagnia”.
Maria Giovanna Maglie