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US Election '18, l'esperto: “Cosa succede se vince ancora Trump…”

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Nel 2016 l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca colse il mondo di sorpresa. Dato per spacciato dai sondaggi, e con la stragrande maggioranza del panorama culturale americano schierato contro di lui, il tycoon dei real estate finì col prevalere sulla democratica Hillary Clinton. E' stata la forza del messaggio “America first“, poi tradotto in politiche protezionistiche, di difesa dei confini, di aspra critica nei confronti delle organizzazioni internazionali, Nato e Onu in testa. Un cambio di passo storico per Washington e, nel contempo, un input politico lanciato in Occidente, dove la declinazione europea di quel progetto – il sovranismo – ha finito col prendere piede. Domani quell'esperienza sarà soggetta al primo, vero, esame: le elezioni di medio termine. Come nel 2016 i riflessi del voto americano potrebbero arrivare sino a casa nostra, in Europa, dove a maggio 2019 saremo chiamati alle urne per il rinnovo del Parlamento Ue. Per affrontare l'argomento In Terris ha contattato Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell'Istituto affari internazionali (Iai). 

Mai come quest'anno le elezioni di medio termine vengono lette politicamente come un referendum su Donald Trump. E' così?
“Le elezioni di metà mandato hanno sempre rappresentato un indice di gradimento nei confronti dell'operato del Presidente. Quindi è indubbio che l'elemento Trump possa risultare decisivo. Del resto quando alla Casa Bianca siede un personaggio così controverso, divisivo, proteso alla demonizzazione dell'avversario e a marcare una differenza quasi antropologica con esso, è normale si rafforzi la 'narrative', per dirla con gli americani, del referendum”. 

Quale sarà le geografia parlamentare americana a spoglio ultimato?
“Secondo i sondaggi i repubblicani manterranno comodamente il Senato e, anzi, aumenteranno il numero di seggi. Mi spiego: il sistema costituzionale americano prevede che ogni due anni venga rinnovato solo un terzo del Senato. Dei seggi in palio, 23 oggi sono in mano ai democratici e 9 ai repubblicani. I dem sono chiamati a giocare una partita difensiva, il che li mette in una situazione estremamente sfavorevole, come mai è avvenuto negli ultimi quarant'anni”.

Il match decisivo, dunque, si svolgerà alla Camera dei Rappresentanti…
“Esatto. Alla Camera vanno rinnovati tutti i 435 seggi. Dobbiamo però tener presente il sistema elettorale: al Senato ogni Stato elegge sempre due rappresentanti, a prescindere dalle sue dimensioni demografiche; alla Camera, invece, l'elezione avviene sì su base proporzionale – tenendo conto della popolazione totale Usa – ma con meccanismi che, in un certo senso, privilegiano gli Stati meno popolosi, nei quali i repubblicani sono più forti”.

Perché fa questa precisazione?
“Perché non è detto che il margine di vantaggio che quasi tutti i sondaggi attribuiscono ai democratici si traduca automaticamente in seggi sufficienti per consentire loro di avere la maggioranza, che potrebbe restare in mano repubblicana…”

Uno scenario del genere che effetti avrebbe sulla Casa Bianca?
“Darebbe una legittimazione difficilmente contestabile all'agenda di Trump, al suo modo di fare politica e certificherebbe che, di fatto, il presidente si è impossessato del partito repubblicano, tracciando una linea storica. Teniamo conto che dal 1992 in poi tutti gli inquilini della Casa Bianca hanno sempre visto il proprio partito perdere terreno, spesso considerevolmente, nelle elezioni di medio termine. E' successo a Clinton, a Bush e a Obama. Invertire la tendenza darebbe sostanza al messaggio di Trump, oggi fondato sul marketing della vittoria. E darebbe grande impulso ai repubblicani, che in estate temevano un'ondata “blu” su tutto il Congresso, Senato compreso”.  

Viceversa con un'affermazione dem alla Camera per Trump potrebbero spalancarsi le porte dell'impeachment per il Russiagate… 
“Se, come prevedono i sondaggi, i democratici dovessero vincere alla Camera avrebbero i numeri per promuoverlo, ovviamente laddove riscontrassero l'esistenza dei presupposti di legge, ad esempio l'ostruzione alla giustizia, nel rapporto che verrà trasmesso dal procuratore speciale Mueller. Attenzione però: un conto è l'impeachment, cioè la messa in stato d'accusa, che viene votata dalla House of Representatives a maggioranza semplice, un altro è la destituzione del capo dello Stato in carica, che va deliberata dal Senato con la maggioranza qualificata dei due terzi. I dem non hanno questi numeri e, nello stesso tempo, nessun senatore repubblicano si sognerebbe di votare una mozione che dall'elettorato conservatore verrebbe letta come un vero e proprio colpo di Stato. Per cui, se ritengo possibile l'ipotesi di un'impeachment, escludo del tutto quella della destituzione”.  

Quanto può spostare in termini di consenso il caso dei pacchi bomba che, secondo le indagini sarebbero stati recapitati a esponenti democratici ed ex uomini di Stato da parte di un fanatico di Trump? 
“Non voglio sbilanciarmi e fare previsioni in tal senso, operazione già difficile per chi fa il sondaggista di professione e conosce molto bene l'opinione pubblica americana. Dico solo una cosa: da almeno 20/25 anni l'elettorato statunitense non è più liquido. Al contrario si è assistito a una sua progressiva polarizzazione e contestualmente, alla diminuzione del numero di persone che si defiscono 'moderate' e quindi pronte al sostegno di posizioni bipartisan”. 

E questo cosa comporta in termini politici?
“A una generale predilizione per i politici che abbiano un atteggiamento intransigente nei confronti degli avversari. Sì può dire che oggi in America vi sia una sovrarappresentanza dei poli estremi, soprattutto a destra”. 

Una descrizione che dice molto degli Usa attuali. E forse spiega anche alcune misure “estreme” annunciate dalla Casa Bianca, come l'abolizione dello ius soli, previsto dalla Costituzione americana…
“Trump adotterà un provvedimento esecutivo che sarà contestato nelle varie Corti e non verrà mai ritenuto valido. Ma, ovviamente, non è questo che interessa al presidente in termini politici. Per cui, sì, in un contesto fortemente polarizzato il segreto per vincere le elezioni consiste nella mobilitazione dell'elettorato più fidelizzato piuttosto che nella persuasione di quello, sempre più risicato, disposto a votare una parte piuttosto che un'altra. Annunciare l'invio dell'esercito al confine col Messico, esaltare la vicenda della Carovana dei migranti provenienti dal Centro America e, in generale, dare ampio risalto a tutto ciò che interessa la base di Trump rientra in una logica di mobilitazione dell'elettorato repubblicano in un momento nel quale non si vota direttamente sul presidente ma per il Congresso e, quindi, il traino della Casa Bianca potrebbe risultare poco efficace”. 

L'elezione di Trump nel 2016, insieme alla vittoria del “leave” nel referendum sulla Brexit, ha fatto da apripista all'affermazione dei movimenti sovranisti in Occidente. L'esito delle midterm election può influire in qualche modo sulle prossime Europee?
“Se il risultato sarà in linea con i sondaggi attuali, e quindi i democratici dovessero ottenere la maggioranza alla Camera, credo non ci sarà nessun riflesso sul clima del dibattito politico europeo. Se invece, a sorpresa, i repubblicani dovessero vincere alla Camera, potrebbe verificarsi anche in Europa un'ulteriore legittimazione del fenomeno sovranista. Un Congresso che resta 'rosso' darebbe maggior impeto al nazionalismo”. 

E in ottica di politica interna assesterebbe un duro colpo al difficile processo di ricostruzione in casa democratica in vista del 2020…
“Tra i dem manca una linea dominante, ma non i fenomeni interessanti. E' molto presto per parlarne ma possiamo fare delle ipotesi: se, come da sondaggi, i democratici dovessero conquistare la maggioranza alla Camera bisognerà vedere quali 'corse' saranno risultate più efficaci. In particolare occorrerà analizzare bene quella per uno dei due seggi senatoriali in palio in Texas, nella quale è in vantaggio il repubblicano Ted Cruz, ex rivale di Trump, tallonato dal democratico Beto O'Rourke. Quest'ultimo ha impostato una campagna elettorale che gli analisti considerano intelligente e potenzialmente vincente su scala nazionale. O'Rourke, in sostanza, non attacca Trump in modo diretto ma cerca di far passare il messaggio secondo cui l'agenda nazionalista della Casa Bianca non corrisponde alla vera identità americana. Che, sostiene, è quella di una società aperta, all'immigrazione, al commercio, alla cooperazione internazionale, capace di guardare alle sfide del futuro senza chiudersi in se stessa. Difficilmente O'Rourke riuscirà a vincere in un fortino repubblicano come il Texas ma ottenendo un buon risultato potrebbe comunque indicare una strada da seguire: impostare una campagna elettorale costruttiva piuttosto che di scontro”. 

 

 

 

Luca La Mantia: