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Turchia, Erdogan vince ma il referendum spacca il Paese. L’Osce: “Standard non rispettati”

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Ha vinto davvero di un soffio Recep Tayyip Erdogan. Il referendum costituzionale sul presidenzialismo, da lui voluto e sostenuto a colpi di comizi tenuti fino a poche ore prima dell’apertura dei seggi, ha spaccato in due la Turchia (nonostante i primi risultati annunciassero una larga vittoria del “Sì”), ottenendo una preferenza risicata del 51,3%, a fronte di un 47,8% che, invece, ha dato parere negativo alla realizzazione di quello che, di fatto, è a tutti gli effetti un superpresidenzialismo praticamente a vita: “La Turchia ha preso una decisione storica di cambiamento e trasformazione – ha detto Erdogan nel suo primo discorso alla popolazione dopo la vittoria -. Una scelta che tutti devono rispettare, compresi i Paesi che sono nostri alleati”. E, mentre l’opposizione denuncia a gran voce brogli elettorali che sarebbero avvenuti in diversi seggi, con il conteggio di un discreto numero di schede ritenute dubbie (circa il 37% secondo il principale partito avversario, il Chp), gli scenari che si delineano al di là degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli assumono fattezze fortemente autocratiche: ” È la vittoria di tutta la nazione, compresi i nostri concittadini che vivono all’estero. Questi risultati avvieranno un nuovo processo per il nostro Paese”. Nelle ore successive alla vittoria, la Commissione elettorale turca ha sciolto le riserve sulle schede contestate, affermandone la validità. L’Osce (Organizzazione per la sicurezza in Europa), tuttavia, continua a definire irregolare lo svolgimento del referendum, poiché “condotto in condizioni di disparità” e con modifiche procedurali dell’ultimo momento che hanno “rimosso importanti salvaguardie

Erdogan a vita

Ma in cosa consisterà l’annunciato cambiamento? Prima questione: l’annessione della Turchia all’Unione Europea. Erdogan ha già annunciato che, il prossimo referendum che verrà indetto, sarà incentrato sulla permanenza del Paese come candidato all’ingresso nell’Ue. Successivamente, ne verrà fatto un altro, riguardante la reintroduzione della pena di morte, come spiegato dallo stesso presidente durante il suo discorso alla folla, una scelta comunque tutt’altro che di avvicinamento all’Occidente. Il “rinnovamento”, tuttavia, sarà senza dubbio più consistente sul piano politico, con un rafforzamento a oltranza del potere governativo e un conseguente ridimensionamento del ruolo di controllo esercitato dal parlamento sull’esecutivo. In sostanza, gran parte del potere sarà concentrato nelle mani di Erdogan che, teoricamente, potrebbe restare alla guida del Paese addirittura per altri 17 anni. L’entrata in vigore della nuova costituzione, infatti, prevista per il 2019, implica la ripartenza del presidenzialismo, con possibilità di rielezione (direttamente dal popolo) per i successivi dieci anni (due termini consecutivi da 5) con un’opzione per altri 5. Il potenziale orizzonte è dunque il 2034, una condizione che potrebbe porre Erdogan come uno dei capi di Stato più longevi della storia, sicuramente della Turchia (il padre della Nazione, Mustafa Kemal Ataturk, rimase in carica alla presidenza per 15 anni dal 1923 al 1938).

Potere nell’esecutivo

Altro punto focale della riforma, di 18 articoli in tutto, è l’abolizione della figura del premier, con la nomina di due vicepresidenti e dei vari ministri direttamente dal presidente, senza dichiarazione di responsabilità al parlamento che, a questo punto, vedrebbe il suo ruolo cospicuamente ridotto, mantenendo comunque la possibilità di sfiduciare il presidente purché si sciolga in vista delle elezioni anticipate (assieme a quelle governative, si svolgeranno anche quelle parlamentari). In sostanza, Erdogan, in carica dal 2014, potrebbe potenzialmente mantenere un ruolo di controllo pressoché totale del Paese quasi per i prossimi venti anni, concentrando nelle sue mani i poteri di capo dello Stato e capo del Governo. Resta da chiarire se, effettivamente, il conteggio del primo mandato verrà azzerato e, di conseguenza, se sia concreta o meno la possibilità di una nuova candidatura anche nel 2024 (e, addirittura, quella per gli ulteriori 5 anni in caso il parlamento si sciogliesse).

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