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Sudan, l'urlo di libertà di un popolo oppresso

Continua a urlare il Sudan, e questa volta ha mobilitato circa un milione di persone, scese lungo l'Africa Road a Khartum per manifestare il loro dissenso verso gli attuali vertici di governo. Lo aveva fatto circa un mese fa: era il 3 giugno scorso quando i berretti rossi del generale Mohamed Hamdan Dagalo avevano represso nel sangue le proteste. Allora, 107 persone erano state massacrate davanti al sit-in delle Forze armate. Eppure, il potere coercitivo non ha avuto la meglio sulla voglia di riscatto del popolo sudanese che, al grido di “Via Hemeti”, ieri ha chiesto con tono perentorio “Madanìa”, che nella lingua locale significa “Governo civile”. Non ha intimorito loro la minaccia fatta dal generale il sabato precedente, che aveva avvertito di “non tollerare nessun atto di vandalismo”. Secondo le agenzie, ieri sarebbero morte almeno sette persone e ferite più di 180.

Le proteste

I dissensi sono iniziati nel gennaio scorso, quando una prima protesta per i generi alimentari fu repressa nel sangue. Contrariamente a quando il presidente Omar al Bashir si aspettasse, quell'evento scatenò una reazione di maggiore dissenso. Dopo quattro mesi di manifestazioni, l'esercito sudanese completò il colpo di Stato: al Bashir fu dimesso e la fine dei suoi trent'anni di governo accese le speranze di chi desiderava un riassetto di governo basato su libere elezioni e democrazia. Ma le possibilità di vedere un cambiamento nel Paese sono sfumate con l'arrivo della giunta militare. Inizialmente al fianco dei manifestanti, le forze fedeli al generale Dagalo, noto col nome “Hemeti”, passarono dall'essere conniventi a passare dall'altra parte. Noto per essere autore delle più gravi violenze compiute in Sudan negli ultimi 15 anni, Hemeti è stato a capo delle milizie Janjaweed, una costola dal carattere mercenario che, assoldata dal governo, si macchiò di crimini violenti verso le comunità non arabe del Darfur. All'epoca, i crimini furono denunciati da diverse organizzazioni umanitarie e non solo: “La loro filosofia è sparare per uccidere” disse di loro il ricercatore Ahmed Elozbier al quotidiano The Wall Street Journal. Ora, Hemeti è il vicecapo del Consiglio militare, ma il suo protagonismo in Darfour con i suoi “diavoli a cavallo” gli ha conferito un'autorità forte, finanche superiore al capo del Consiglio. 

Scacchiere geopolitico

Il generale Hemeti desta anche un certo interesse internazionale per il suo ruolo di “mediatore”. Nel 2015, infatti, supervisionò l'accordo con l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti per l'invio di diecimila soldati in Yemen da dispiegare nel conflitto contro i ribelli houthi. Dal canto suo, il principe ereditario, Mohammed bin Salman, ha garantito l'appoggio al suo governo e lo stesso hanno fatto l'Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. Come ampiamente sostenuto dal quotidiano The New York Times, “le mosse concertate sono tipiche della politica guidata dai sauditi nella regione, che favorisce gli uomini forti sostenuti dai militari per le rivolte popolari e i movimenti democratici”. Dalle colonne del medesimo quotidiano, la 22enne Alaa Salah, la manifestante simbolo della resistenza al governo del generale, ha denunciato: “Per anni Hemeti ha ucciso e bruciato in Darfur. Ora il Darfur è arrivato a Khartum“.

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