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SIRIA, LE ULTIME ORE DI PALMIRA

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Le bandiere nere dell’Isis sventolano su Palmira. Le rovine millenarie, arse dal sole del deserto, sembrano guardarle intimorite. Il count down è iniziato, ancora pochi giorni, forse ore, e la furia iconoclasta degli uomini di Al Baghdadi si abbatterà su di esse, spazzandole via dalla storia, come è già avvenuto per i monumenti di Mosul e di Nimrud. Monumenti sopravvissute a secoli e conquiste di cui tutti avevano avuto rispetto, riconoscendone la bellezza, apprezzandone la storia. Ma nell’ordine nuovo che il Califfato vuole portare nelle regioni conquistate non c’è spazio per l’arte, specie se di origine pagana. L’Unesco e la comunità internazionale avevano lanciato l’allarme già la settimana scorsa, ora potrebbe essere troppo tardi per salvare musei e costruzioni risalenti all’età romana e dipinti di inestimabile valore. “Sono molto preoccupata per la situazione di Palmira. I combattenti minacciano uno dei luoghi più significativi del Medio Oriente e la popolazione civile che vive lì” aveva detto Irina Bokova, direttore generale dell’agenzia Onu che cataloga e protegge i patrimoni dell’umanità.

Ieri, mentre i jihadisti “festeggiavano” la vittoria a suon di decapitazioni (trattando i cittadini del centro siriano alla stregua di bottiglie di champagne), sono proseguite le operazioni per spostare decine di statue, impedendo che potessero cadere nelle grinfie del Daesh. Il centro archeologico di Palmira, con più di 2mila anni alle spalle, è entrato nella lista Unesco nel 1980 ed è considerato a ragione uno dei gioielli del Medio Oriente. Qui si respira la storia: seleucidi, romani, bizantini e arabi. Ognuno di questi popoli ha lasciato a noi, sciagurati uomini dell’età moderna, un contributo per ricordarci il suo passaggio. Una memoria che una guerra senza limiti e confini potrebbe dissolvere. Perché se effigi e sculture possono essere trasportate altrove così non è per acquedotti e palazzi.

Affianco alla tragedia culturale c’è poi quella umana di centinaia di uomini e donne torturati, seviziati e barbaramente uccisi per creare un deserto nel deserto dove il Califfato possa allungare i tentacoli. I soldati dell’esercito regolare si sono spostato nei quartieri settentrionali di Tedmor (l’attuale nome della città) lasciando il resto alla jihad. Un comportamento forse frutto della strategia militare ma di sicuro criticabile secondo alcuni osservatori. Secondo l’attivista Naser al-Tahir, membro del locale Coordinamento della rivoluzione, si è trattato di “un vero e proprio passaggio di consegne”. “Si sono verificati scontri molto blandi tra l’Isis e le forze del regime dopo di che queste ultime si sono ritirate velocemente da tutti i punti in cui erano concentrate in città” ha raccontato ad Aki Adnkronos. I militari di Assad avrebbero subito perdite “molto lievi, non più di una cinquantina di soldati”. Quanto ai detenuti nel carcere della città, considerato uno dei più duri della Siria, tutti i prigionieri sarebbero “stati liberati, ma già ieri le forze del regime hanno provveduto a trasferirne una grossa parte a Damasco”. Thair ha poi smentito che l’Isis abbia fatto prigionieri tra i militari governativi: “Lo Stato islamico ha spianato loro la strada verso la ritirata e questo indica che si è trattato di un vero e proprio passaggio di consegne”.

Ma, paradossalmente, l’allarme internazionale per le sorti di Palmira potrebbe accelerarne la distruzione. Agli uomini di Al Bagdhadi piace avere addosso gli sguardi del mondo; uccidendo e annientando non si limitano a terrorizzare ma lanciano moniti espliciti ai loro rivali, come a dire: “Questo è quello che capiterà anche a voi”. Abbattere la città sarebbe allora l’occasione giusta per tornare a sfidare il mondo. Tedmor, fra l’altro, non ha un valore solo archeologico ma anche strategico e militare. Le rovine sono posizionate sulla via che collega Damasco alla città orientale di Deir e il deserto attorno alle stesse confina con la provincia irachena di Al Anbar. La zona è poi ricca di giacimenti petroliferi e di gas che il governo centrale usa per generare elettricità destinata alle regioni occidentali del Paese. L’unico tesoro, quello sotterraneo, che potrebbe restare intatto.

 

 

Luca La Mantia: