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Quel filo rosso fra Reagan e Trump

Ronald Reagan e Donald Trump: nome di battesimo con una certa assonanza fonetica ma con qualcosa in comune di ben più sostanziale, come la loro esperienza alla Casa Bianca. Se esista o meno un filo rosso fra i due, pur a distanza di oltre trent'anni dalle rispettive presidenze, è argomento di discussione. Di sicuro qualche assonanza c'è anche nel contesto mediatico che ha accompagnato le loro elezioni, salutate con la stessa dose di scetticismo e timore aprioristico da organi di informazione e stampa, soprattutto quella estera. Certo, in comune c'è anche il partito, il Gop, repubblicani entrambi. La questione, però, non è tanto capire quante analogie vi siano, né se sia giusto o meno paragonare Ronald a Donald: il nodo resta comprendere se porre sullo stesso piano due presidenti di due distinte epoche storiche degli Stati Uniti sia una mossa saggia, anche se solo ragionando in un'ottica di politica conservatrice, acclarata in un caso, da definire nell'altro. O quantomeno un'ipotesi che regga, dal momento che il Paese di cui assunse la guida Reagan era assai diverso da quello preso in consegna da Trump. Il comune denominatore, forse, potrebbe risultare non tanto l'analogia fra le due figure in sé, quanto più la considerazione dei due come interpreti della figura del conservatore.

Accoglienze fredde

Un nesso, questo, sul quale l'opinione pubblica è tutt'altro che concorde, se non altro per quanto concerne la figura di Trump. E' su di lui che gli annessi e connessi legati al termine “conservatore” vanno sondati in modo più approfondito e tale che, forse, i due anni di presidenza del Tycoon non possono ancora consentire. L'aggettivo, che è poi solo la superficie di un concetto ben più complesso di quanto non sembri, calza decisamente meglio a Ronald Reagan, arrivato alla Casa Bianca in piena guerra fredda, durante gli anni forse “più caldi” del confronto geopolitico con l'Unione sovietica dagli anni 60. Ed è con il termine conservatore che lo inquadra Edwin Meese III, braccio destro del presidente a partire dal 1967 e autore di quella che, a oggi, è l'unica vera e propria biografia su Reagan presente in Italia (edita da GiubileiRegnani), della quale si è discusso durante l'incontro “Trump e Reagan. I due presidenti che hanno rivoluzionato la politica americana”.

“L'uomo del West”

Meese, reaganiano della prima ora assieme ad altri membri di spicco dell'entourage repubblicano tra gli anni 70 e 80 quali Lyn Nofziger e Mike Deaver, tenta di sfatare già nelle prime pagine del suo volume il mito prettamente europeo di un Reagan come “presidente cow-boy”, giunto quasi per caso alla guida degli Stati Uniti: “Nel corso degli innumerevoli viaggi in aereo o in automobile lo ricordo sempre al lavoro, magari impegnato a prepare il suo prossimo discorso o alla ricerca di nuovi spunti. Faceva tutto questo al fine di presentare una visione ben precisa degli Stati Uniti… Si trattava di una visione potente e molto coerente… Ancora più importante, fu una visione in sintonia con gli elettori e questo per una ragione semplicissima: e cioè che quella di Reagan era anche la loro visione, basata sulle tradizioni del nostro Paese e sull'applicazione di alcune semplici regole di buon senso”. “L'uomo del West” assume qui una connotazione decisamente divergente rispetto a quello che fu il clima che ne accolse l'elezione, anche se il crocevia delle primarie in New Hampshire avesse già mostrato un candidato ben più forte di quanto ci si aspettasse, che dall'interloquire con gli elettori traeva la sua forza, a dispetto di un contesto mediatico-politico che vedeva nel mainstream il fulcro di ogni campagna elettorale. E questo, secondo Meese, fu il motivo che spinse il futuro presidente a interrompere il rapporto con John Sears (all'epoca direttore della campagna Reagan) e a cedere le redini a Bill Casey, recuperando al contempo tutto il suo staff storico, al suo fianco fin dai tempi del governatorato della California.

L'isteria mediatica

Forse il vero punto di connessione fra la figura di Reagan e quella di Trump, al di là delle appartenenze politiche, può essere trovato proprio nell'accoglienza mediatica loro riservata: nel passato pre-politico di Reagan c'era stata Hollywood, non a livelli tali da consentirgli un'aura di rispetto a priori, così come in quello di Trump aveva trovato posto la tv di massa, fattori che non hanno mancato di influenzare il loro stile comunicativo, in anticipo sui tempi per Reagan, addirittura borderline per Trump. Forse anche per questo per entrambi fu presente, fino allo scrutinio finale, uno scetticismo di fondo sulle reali possibilità di elezione: il direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, l'ha definita “isteria mediatica”, parlando di “un pregiudizio del mainstream” basato sui trascorsi nello spettacolo di entrambi anche se, a dire il vero, nel curriculum di Reagan figurava già la poltrona di governatore della California, mentre il Tycoon mette le sue radici nell'imprenditoria e nel business del piccolo schermo. Per quanto riguarda Reagan, è ancora Meese a dare una risposta: “Secondo la visione tradizionale, le elezioni non si vincono discutendo seriamente dei problemi… Secondo gli standard tradizionali degli oppositori dell'establishment, la visione politica di Reagan era assurda, irrilevante e impopolare agli occhi del pubblico. E se questa sua visione era inadeguata per farsi eleggere, a maggior ragione lo sarebbe stata per governare il Paese”.

Presidenti “per caso”

Sull'elezione di Reagan, rispetto alle presidenziali del 1976, pesò probabilmente la doppia crisi, finanziaria e diplomatica che gli Stati Uniti attraversavano all'epoca della fine della presidenza Carter, portate dalla recessione e l'inflazione a due cifre, così come dalla crisi degli ostaggi all'ambasciata americana di Teheran. Più elastica la sfida fra Trump e Hillary Clinton, con il face-to-face tra l'ascesa del suddetto mainstream e la resistenza del vecchio establishment americano, bilanciato fra la carica empatica dell'ex first-lady e la figura confortante ma in declino dell'ex presidente Bill. I diversi presupposti non hanno impedito al parterre mediatico di identificare i due presidenti come figure politicamente passive tanto che, nel suo libro Fire and Fury, Michael Wolff parlava dei coniugi Trump come quasi rassegnati all'idea di aver vinto le elezioni. Per Ronald e Nancy Reagan il discorso fu diverso, anche se l'immagine di “presidente per caso” finì per svilire, almeno inizialmente, persino gli effetti dei tagli fiscali dovuti alla Reaganeconomics: “Una delle cose più sconcertanti – spiega di nuovo Meese – è sempre stata leggere gli innumerevoli resoconti sull'epoca Reagan che dipingono il presidente come una figura sostanzialmente passiva, in un certo senso poco coinvolta, all'oscuro dei fatti o incapace di esercitare la propria leadership… Se dovessimo davvero basarci sulle descrizioni di Lou Cannon sul Washington Post, di Bob Schieffer sulla Cbs o di Laurence Barrett sul Time, avremmo parecchia difficoltà nel cercare di spiegare come abbia fatto un individuo così insulso a farsi eleggere due volte governatore dello stato più popoloso della nostra nazione, figuriamoci a vincere in maniera schiacciante la presidenza per ben due volte di seguito”.

Filo rosso

Una visione che, nonostante il sostegno dell'elettorato, non fu mai definitivamente abbandonata dai media: “La verità è che Reagan era un leader eccezionale; di più, la tempra della sua leadership fu il fattore determinante che permise di raggiungere obiettivi di portata storica a Washington”. Il primo arrivò di fatto in contemporanea alla sua elezione, con il rilascio degli ostaggi dall'ambasciata di Teheran, punto critico dell'uscente amministrazione Carter e, di fatto, il primo successo di quella Reagan che, a detta di Meese, dimostrò la sua autorevolezza presidenziale in più occasioni, non ultima il confronto a distanza con Gorbacev durante il discorso di Berlino. Va anche detto che, in un certo senso, tra il focus perssoché costante del 40esimo presidente americano sui tagli fiscali e il concetto di “America first” di Trump qualche nesso è stato notato, rispettando il mantra repubblicano dell'alleggerimento del peso fiscale. Se tale collegamento esista anche sul piano della “rivoluzione conservatrice”, come ben spiegato dal filosofo Corrado Ocone, “ce lo dirà solo la storia”.

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