Rischia di far letteralmente saltare il banco la morte di Qasem Soleimani, ufficiale di spicco delle forze armate iraniane ma, più nel concreto, uomo chiave degli equilibri mediorientali, filo diretto con gli sciiti libanesi di Hezbollah ma anche artefice del sostegno iraniano al regime di Assad contro la rivolta scoppiata nel 2011. Sottili ma decisive trame, che il raid americano a Baghdad rischia di spezzare tutte in una volta. O, perlomeno, questo è quello che temono i principali osservatori della polveriera mediorientale, scacchiere che da tempo non appariva così sul punto di esplodere in una partita che, in qualche modo, andrà a coinvolgere quasi tutti i pezzi da novanta e, probabilmente, tutti i focolai di instabilità in gioco (Libia compresa). Israele, nella persona del premier Netanyahu, impone il silenzio ai ministri, mentre Teheran marchia a fuoco l'attacco (pare) a firma del presidente Trump in persona parlando di “atto terroristico” e minacciando ripercussioni nei confronti degli Stati Uniti, invitati a costruire delle bare per i soldati ancora di stanza in quella zona. Segno evidente, decisamente più che in altre occasioni, che l'equilibrio già precario sta per infrangersi, a dispetto di ogni scontro precedentemente etichettato come miccia pronta a esplodere, dalla bagarre sul nucleare agli incidenti dello Stretto di Hormuz. Non a caso Washington ha già ordinato ai cittadini americani in Iraq di lasciare il Paese, per via aerea o via terra.
La carriera
Dal 1998 Soleimani guidava le milizie al-Quds, le unità speciali delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Praticamente una vita, considerando che il suo incarico è precedente agli attentati dell'11 settembre 2001, considerati lo spartiacque della nuova era e l'inizio della nuova stagione di fuoco in Medio Oriente. I drammatici avvenimenti di New York, in qualche modo, influirono anche nei rapporti fra Washington e Teheran, inserita nella lista nera americana e rivisto in modo sostanziale l'opinione fin lì maturata nei riguardi di Soleimani, già allora considerato uomo potente e competente, in possesso di quell'abilità necessaria nel tessere la rete di alleanze del governo iraniano con i vari attori in azione tra il Mar Rosso, il Mediterraneo orientale e il Golfo Persico. Azzerati i rapporti con Washington, sono stati decisamente maggiori quelli con la Russia e, soprattutto, con Hezbollah (che infatti giura vendetta, con Sayed Nasrallah a promettere che “infliggere la giusta punizione a questi criminali assassini sarà responsabilità e compito di tutti i combattenti della resistenza nel mondo”), guidando inoltre le forze armate congiunte di Iran e Iraq nella lotta all'avanzata del sedicente Stato islamico, contro il quale combatteranno (anche al fianco degli americani) i gruppi sciiti da lui creati e decisivi nella caduta di Mosul, ultima roccaforte del califfato in Medio Oriente.
Equilibri e riorganizzazione
Da Washington assicurano che “il generale Soleimani stava mettendo a punto attacchi contro diplomatici americani e personale in servizio in Iraq e nell'area”. Il punto, però, è che la sua uccisione nell'ambito del raid in territorio iracheno ha destato decisamente più preoccupazione che approvazione anche negli Stati Uniti, con la politica d'opposizione concorde nel definire la morte del generale un motivo di escalation e di rischio piuttosto che un successo militare. Anche perché con Soleimani non cade solo il perno del braccio armato di Teheran ma anche un uomo che in Iran ha raccolto consensi da star, tali da invocare per lui, più volte, l'ingresso nella scena politica. Dove, visto il sostegno accumulato (peraltro salito vertiginosamente dopo i successi contro l'Isis), avrebbe forse potuto avere successo. Ipotesi mai verificata, visto il costante rifiuto a spostare l'orientamento del suo operato dall'ambito militare alle sedi istituzionali. Teheran ha già nominato il suo successore alla guida dei Pasdaran, Esmail Qaani: segno, probabilmente, che al netto del duro colpo inferto la via della riorganizzazione non sarà così lunga.