Intere foreste in fiamme e stime impressionanti che parlano di almeno un miliardo di animali uccisi. Sono bagliori inquietanti quelli che illuminano di una sinistra luce le giornate dell'Australia, costretta a fronteggiare un'emergenza incendi che, seppur non nuova per quell'area del mondo, ha spiazzato l'opinione pubblica internazionale per portata e dimensioni del fenomeno. Portando in dote immagini strazianti, di animali vittime delle fiamme e di chi, come la piccola Carlotta (immortalata con il caschetto bianco del papà pompiere), è stato costretto a piangere un caro. Al di là dell'azione diretta dell'uomo – che nei giorni scorsi è stata comprovata dagli oltre 180 arresti per dolo -, tale situazione la dice lunga anche sui cambiamenti climatici in atto che, indirettamente, favoriscono non tanto l'inizio quanto la propagazione del fronte degli incendi. E, naturalmente, le loro proporzioni: “Il punto – ha spiegato a In Terris Antonello Provenzale, direttore dell'Istituto di Geoscienze e georisorse del Cnr – è che è la presenza di combustibile a determinare la vastità di un incendio. Qui entra il problema del cambiamento climatico tra eccezionalità della stagione secca, scarse precipitazioni e caldo anomalo”. Tutti fattori che, messi insieme, dipingono un quadro complesso e spinge non solo a riflettere ma ad agire con più decisione in termini di prevenzione.
Dottor Provenzale, dall'Australia continuano ad arrivare notizie e immagini inquietanti, che ci parlano di ecosistemi letteralmente andati in fumo e gravissimi disagi per la popolazione. Nei giorni scorsi si è in buona parte attribuita la responsabilità al dolo ma si è anche fatto ampio cenno ai mutamenti del nostro clima… Cosa sta succedendo in Australia?
“Dipende ovviamente dall’area geografica: in Australia si stima che circa metà degli incendi siano di natura umana, dolosa o accidentale, mentre l’altra metà sono di origine naturale. Situazione che differisce dall’Europa per esempio, dove quasi tutti gli incendi hanno un’origine umana, più del 90%. Nello stesso tempo, però, quello che importa non è tanto l’origine quanto la possibilità che l’incendio si propaghi e si intensifichi. Contano, in sostanza, le condizioni di quello che noi chiamiamo il combustibile, la legna o le piante. Nel caso australiano, si tratta soprattutto di eucalipti e di bush, un tipo di paesaggio composto principalmente da arbusti, facilmente infiammabile: si tratta di un ecosistema in cui gli incendi si inseriscono come un processo assolutamente naturale. Il problema, e qui entra il cambiamento climatico, è che nell’ultimo anno l’Australia è stata particolarmente secca, con precipitazioni molto al di sotto del normale e caldo anomalo. Molti studi hanno dimostrato che è la presenza di combustibile a determinare l’estensione di un incendio, l’area bruciata e, nel caso dell’Australia, si è verificata una condizione estremamente rara che ha combinato la scarsità di precipitazioni a temperature molto elevate rispetto alla media, predisponendo a incendi di grandi dimensioni un ecosistema che già di per sé vi è predisposto. Le condizioni sono state così estreme che anche ecosistemi di bosco, solitamente meno adatti, sono bruciati perché secchi. Quindi l’atto di inizio degli incendi può essere umano o naturale ma sono state le condizioni a favorire questa situazione, tutte riconducibili in qualche modo ai cambiamenti climatici”.
Ha citato la regione mediterranea: parliamo di contesti simili?
“Nel Mediterraneo sta succedendo una cosa analoga: le estati dell’Europa mediterranea sono tendenzialmente più secche e più calde, e quini predispongono a maggiori incendi. In realtà questi sono diminuiti negli ultimi trent’anni ma perché sono migliorate le strategie di prevenzione e di controllo. Però, l’effetto della maggiore siccità estiva, se non migliorano ulteriormente queste strategie, rischia di riportare a un’estensione dell’area bruciata”.
A proposito di prevenzione, al netto della combinazioni di elementi che hanno favorito la propagazione degli incendi, c'è il rischio che quella in atto in Australia sia un'escalation ormai difficilmente contrastabile?
“Chiaramente, quando un incendio si scatena, specie in ambienti come quello australiano, diventa difficile tenerli a bada, poiché le fiamme sono molto alte e, se c’è vento, queste si propagano molto velocemente. Quello che importa è che tutte le misure di prevenzione, di allerta rapida e precoce, e la previsione a livello stagionale che, in qualche modo, può dare la misura sulla possibilità o meno che si sviluppi un incendio. Quindi una strategia di prevenzione, poi il controllo nel momento in cui l’incendio si scatena è molto difficile, specie in ecosistemi intrinsecamente soggetti a questo tipo di fenomeno. Quello mediterraneo non fa eccezione. È chiaro che, nel momento in cui le fiamme si scatenano a ridosso di zone densamente abitate, diventano un problema anche se costituiscono un processo naturale. Per questo dobbiamo intervenire sia prevenendo che prevedendo, a distanza anche di pochi giorni, l’effettiva entità degli incendi predisponendo misure come lo spostamento dei canadair. Negli ultimi trent’anni queste misure sono servite ma con la siccità in aumento durante le estati occorre sicuramente un ulteriore passo”.
Ormai è riconosciuto che i cambiamenti climatici siano effettivamente in atto predisponendo, assieme all'azione dell'uomo, le condizioni ideali per questo tipo di fenomeni, come accaduto ad esempio in California. Il rischio di trovarci sempre più spesso a fronteggiarli aumenta, di rimando, quello di rendere meno efficaci le abituali strategie di prevenzione?
“Alcuni lavori scientifici hanno dimostrato che se la temperatura in area mediterranea aumenta di due gradi, rispetto al preindustriale – quindi un grado in più rispetto a oggi – , si corre il rischio di vedere in alcune zone un raddoppio dell’area bruciata. Non stiamo parlando di una catastrofe ma sicuramente di un incremento significativo. Per affrontarlo, si sta lavorando molto sulle previsioni stagionali e, sostanzialmente, sulle strategie di protezione civile, con il coordinamento delle informazioni fra i diversi Paesi. È fuor di dubbio che, al netto del miglioramento avuto in questi anni, c’è bisogno di lavorare su tutti i metodi di prevenzione, dalla prevenzione precoce agli interventi, per poter fronteggiare una siccità in aumento”.
Le stime che arrivano dall'Australia sono impietose, tra esemplari di flora e fauna falcidiati dalle fiamme. Siamo di fronte a danni irreparabili o c'è possibilità che gli ecosistemi in questione riescano a sopravvivere?
“È difficile in questo momento stimare i danni. Dipende sempre dal tempo scala, ossia il controllo di un’area bruciata a distanza di un certo periodo di tempo, ad esempio un anno. Molti ecosistemi sono adattati agli incendi quindi, in base alle tempistiche necessarie, solitamente venti o trenta anni, riescono a ristabilirsi. Non si tratta di danni irreparabili se si tratta di ambienti preparati agli incendi. Il caso dell’Amazzonia, per esempio, è differente poiché si tratta di roghi meno legati ai cambiamenti climatici e più alle strategie di gestione o alla deforestazione. E in questo caso il danno può essere irreparabile, proprio in virtù del danno aggiuntivo del disboscamento. Nel caso australiano e mediterraneo, anche con danni ingenti, gli ecosistemi riescono a rifiorire”.
Abbiamo parlato di prevenzione: l'Australia sembra in procinto di adottare una soluzione a posteriori come l'abbattimento selettivo di 10 mila cammelli. Una scelta che, visti gli elementi in gioco, appare decisamente discutibile…
“Sembra una soluzione molto d’immagine ma poco efficace. Non sono certo questi animali la causa degli incendi in Australia ma cambiamenti climatici globali che vanno affrontati in quanto tali. Il governo australiano ha sempre poco considerato gli aspetti antropici sul riscaldamento globale e l’abbattimento selettivo suona come una boutade… È vero che i grandi allevamenti contribuiscono in parte all’effetto serra ma si tratta comunque di percentuali irrisorie che rendono questi provvedimenti completamente fuori luogo”.