Suona come una battuta d'arresto ai trattati di pace fra i ribelli jihadisti e i diplomatici statunitensi l'attacco kamikaze avvenuto nella base militare di Nad Ali e in cui hanno perso la vita almeno 10 militari e paramilitari governativi. Stando ai primi dettagli resi noti dalle forze locali, il kamikaze avrebbe attaccato il quartier generale con un furgone contenente circa 8 quintali di esplosivo. L'obiettivo non era casuale: la base militare in questione ospita diverse unità militari e paramilitari delle milizie Sangori. Qualche ora dopo l'attacco, è arrivata la rivendicazione di un gruppo terroristico talebano che ha sottolineato come il suo scopo fosse proprio quello di interrompere il processo di pace, iniziato qualche giorno fa a Doha, in Qatar.
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Negoziati fragili
Sarà forse la frustrazione per una guerra considerata “interminabile” oppure la voglia di mantenere la promessa di riportare a casa i circa 12mila soldati statunitensi: sta di fatto che il presidente Usa, Donald Trump, dopo aver interrotto in passato i negoziati con i talebani, ha deciso di riarprirli il 7 dicembre scorso, anche se i funzionari di Washington stanno lavorando ai negoziati da diverso, e lo ha dichiarato lo stesso presidente-tycoon nella visita a sorpresa alla base militare Usa in Afghanistan il Giorno del Ringraziamento. Prima di scegliere Doha quale luogo dei colloqui di pace, a Kabul il delegato statunitense deputato ai negoziati, Zalmay Khalizad, aveva incontrato il presidente afghano Ashraf Ghani, bollato in precedenza dagli stessi talebani quale un “burattino nelle mani degli americani”. Sebbene i colloqui di pace siano percepiti come una fase “distensiva” nelle tensioni fra ribelli talebani e lealisti governativi, gli attacchi ripetuti nelle settimane scorse, in ultimo quello nella base militare, sono il segno che si tratta di colloqui pur sempre fragili.